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Agenzia di comunicazione

Campagne Marketing

Labubu mania: perché conquista il mondo e cosa ci insegna?

10 Settembre 2025

Una piccola anatomia di un fenomeno culturale

Sorriso spiazzante, orecchie appuntite e look irriverente. 
Labubu non è semplicemente un pupazzetto: è diventato un fenomeno globale, capace di far discutere, entusiasmare e persino dividere.
Nato nel 2015 dalla creatività di Kasing Lung, illustratore di Hong Kong cresciuto nei Paesi Bassi, Labubu mescola folklore nordico ed estetica contemporanea. Oggi è al centro di un business miliardario e di una passione che ha contagiato collezionisti, fan e celebrities in tutto il mondo.
Il successo, però, ha avuto anche conseguenze inaspettate: dalla domanda così alta da scatenare risse nei negozi fino al boom di contraffazioni, i famigerati Lafufu, che hanno costretto Pop Mart a correre ai ripari.

Ma cosa rende davvero irresistibile questo piccolo mostriciattolo?
Ecco 6 motivi che spiegano perché Labubu funziona e quali insegnamenti possiamo trarne.

1. Un design “creepy-cute” che cattura l’immaginazione

Labubu è tenero e inquietante allo stesso tempo. Con denti aguzzi e occhi dolci, unisce due emozioni opposte in un paradosso “risolvibile”: un pizzico di minaccia che alza l’attenzione e la dolcezza che la disinnesca. Questo mix genera una tensione piacevole – la classica sensazione da cute aggression (“è così carino che lo strizzerei”) – che tiene agganciato lo sguardo. In più, la sagoma semplice e i tratti esagerati lo rendono riconoscibile al volo nei feed e sugli accessori.

Il suo fascino nasce proprio dalla particolarità: non rassicura, non si uniforma, ma resta immediatamente riconoscibile. La diversità diventa il suo vero superpotere.

2. Pop Mart e la spinta globale

L’incontro con Pop Mart nel 2019 ha trasformato Labubu da personaggio di nicchia a fenomeno mondiale. Oltre alla distribuzione capillare, il leader globale dei collectible toys ha saputo creare un universo attorno al pupazzo, portandolo nei negozi specializzati, nelle fiere e soprattutto sui social.

La collaborazione ha reso Labubu un nome familiare: facilmente reperibile, ma mai banale, con il giusto equilibrio tra diffusione e desiderabilità.

3. Blind box, mistero e FOMO

Il meccanismo delle blind box è semplice: compri una scatola senza sapere quale personaggio troverai. Forse quello più comune, o forse una “secret” rarissima.
È un gioco che unisce fortuna, collezionismo e adrenalina. La scarsità delle edizioni e la presenza di varianti rare alimentano la FOMO (fear of missing out), spingendo i fan a inseguire continuamente la prossima uscita.

La sorpresa diventa parte integrante del prodotto: non compri solo un oggetto, ma l’esperienza del rischio e della scoperta.

4. Cultura pop, fandom e celebrity effect

Ad aprile 2024, una foto di Lisa delle Blackpink con un portachiavi Labubu ha acceso la miccia: il giocattolo è esploso sui social, diventando un oggetto del desiderio globale.

Quando un prodotto riesce a incrociare fandom, moda e celebrity culture, smette di essere un semplice acquisto e diventa un linguaggio condiviso.

5. Uno status symbol

Oggi Labubu è molto più di un giocattolo: è un fashion toy. Appenderlo alla borsa, tenerlo come portachiavi o mostrarlo nella propria collezione equivale a esibire un piccolo status symbol, simile a una sneaker limited edition o a un gadget esclusivo.

Oggetti così diventano monete sociali: dettagli che non servono solo a decorare, ma a comunicare appartenenza e gusto.

6. Arte, comunità e valori culturali

Al cuore di tutto c’è la visione di Kasing Lung. Con la serie The Monsters ha creato un universo di creature imperfette ma dal cuore gentile.
In un mondo saturo di immagini levigate, un brand che osa valorizzare stranezza e vulnerabilità non solo si distingue, ma costruisce legami emotivi profondi con la propria community.

Labubu funziona perché incarna lo spirito del nostro tempo: un design affascinante e ambivalente, il brivido del collezionismo, la spinta delle celebrity, la moda come linguaggio identitario e una narrazione artistica sincera. Un piccolo mostriciattolo che è riuscito a diventare un grande fenomeno culturale.

Forse è il momento di guardare alle tue idee più insolite: potrebbero essere il tuo Labubu. 

Contattaci!

Filed Under: Campagne Marketing, Programmazione Siti Web, Social Media

Le Golden Rules del Black Friday

25 Novembre 2024

Crea un evento di shopping unico

Il Black Friday è un’opportunità imperdibile per aumentare le vendite e attrarre nuovi clienti. Ma per sfruttarlo al massimo, è fondamentale seguire alcune regole d’oro. 

Eccone nove per creare un Black Friday di successo!

Gioca in anticipo.

Pianifica la tua strategia in anticipo, definendo sconti mirati e offerte esclusive. Usa i teaser sui social, invia newsletter pre-evento e crea aspettativa: è la chiave per attirare l’attenzione!

Vai dritto al punto, con creatività.

Le promozioni devono essere chiare e facilmente comprensibili, ma la comunicazione deve strizzare l’occhio al cliente con creatività. Usa headline incisive e descrizioni brevi, trasmettendo il punto di vista personale del tuo brand e sfruttando il Black Friday anche per rafforzare la brand awareness.

Integra i canali online e offline.

Se hai un negozio fisico, integra le vendite online con quelle in store. 

Offri la possibilità di ritirare gli acquisti online direttamente in negozio (click & collect) e incentiva la visita fisica con promozioni speciali. Il Black Friday è il momento perfetto per fare cross-selling tra i tuoi canali.

Crea un e-commerce a prova d’acquisto.

Migliora lo shopping del tuo e-commerce progettando esperienze personalizzate, con assistenza mirata tramite chatbot avanzati e l’utilizzo della realtà aumentata per visualizzare i prodotti come in un negozio fisico. Un’esperienza d’acquisto coinvolgente ridurrà i resi e aumenterà la soddisfazione del cliente.

Punta sul servizio clienti.

Durante il Black Friday, il servizio clienti può fare la differenza. Predisponi vantaggi extra come la spedizione gratuita o un’assistenza dedicata. I clienti apprezzeranno il supporto immediato e professionale.

Monitora e adatta le offerte.

Il Black Friday è frenetico e le preferenze dei clienti cambiano rapidamente. Tieni d’occhio le performance delle tue promozioni e adatta le offerte in tempo reale per sfruttare ogni opportunità.

Rendi il Black Friday un evento unico.

Crea dinamiche di gamification e offerte a tempo per stimolare l’urgenza e l’entusiasmo. Organizza eventi virtuali interattivi, come tour dei prodotti o dirette social per offrire un’esperienza immersiva e coinvolgente.

Sfrutta il post-Black Friday.

Il Cyber Monday e le offerte natalizie danno una grande opportunità per mantenere l’attenzione sul tuo brand anche dopo il Black Friday. Non lasciar svanire l’interesse subito dopo l’evento!

Dai un occhio di riguardo alla sostenibilità.

Le nuove generazioni sono sempre più consapevoli dell’impatto ambientale delle loro scelte di acquisto. Offrire soluzioni più sostenibili, anche in occasione del Black Friday, consente di rispondere a questa crescente domanda, garantendo un vantaggio competitivo e veicolando una visione a lungo termine del tuo brand.

Il Black Friday può quindi non solo aumentare le vendite, ma anche rafforzare la reputazione del tuo brand e fidelizzare i clienti. Fai in modo che ogni offerta rafforzi la relazione con i tuoi clienti!

Hai bisgongno di aiuto? Contattaci!

Filed Under: Campagne Marketing, Programmazione Siti Web, Social Media Tagged With: social media marketing ecommerce blackfriday

Brand VS Brand: esempi di pubblicità comparativa

4 Maggio 2022

Il concetto di pubblicità comparativa ci porta subito alla mente diversi livelli di adv: da un lato le pubblicità dei prodotti d’igiene con relativo paragone che svela quale dei due funziona meglio, dall’altro le lotte a colpi di creatività fra colossi come Pepsi e Coca Cola. Se in Italia è illegale fare riferimenti diretti ad altri brand, negli Stati Uniti e in altri Paesi c’è molta più libertà, anche se denunce e sanzioni sono sempre dietro l’angolo.
Scopriamo insieme quali sono le strategie di comunicazione più utilizzate nella pubblicità comparativa prendendo in rassegna alcuni degli esempi più significativi.

Ribaltare le aspettative

Davanti alla prospettiva di incappare in denunce, la pubblicità comparativa finisce spesso per “giocare con il fuoco”. Il gioco è condotto anche in relazione a chi guarda, dato che spesso gli ad di questo tipo giocano a tradire le aspettative dello spettatore, spingendolo a credere che si tratti di una pubblicità del loro competitor.

È il caso di un celebre spot del 2001, ideato da Headshaus: un bambino prende due lattine di Coca Cola da un distributore automatico, ma poi le usa come “sgabello” per raggiungere il pulsante che gli permette di acquistare una Pepsi.

Possiamo poi citare uno spot di Adidas (ideato dall’agenzia Spec nel 2005), meno aggressivo ma comunque efficace: la voce fuori campo spiega che l’abile corridore inquadrato dalla macchina da presa indossa scarpe Nike, ma poi aggiunge che il cameraman, che deve seguire l’atleta portando con sé la pesante telecamera, indossa scarpe Adidas.

Ammettere uno svantaggio

Nel 1962, nell’ambito del noleggio auto non c’era gara: Hertz vinceva a mani basse. Da qui deriva la geniale intuizione del competitor Avis: ammettere candidamente di essere il “numero 2”. La strategia, ideata dalla celebre agenzia Doyle Dane Bernbach, diede vita a una campagna che costituisce ancora oggi una boccata d’aria fresca nel mondo della pubblicità comparativa, in cui troppo spesso i brand tendono a ergersi a vincitori a prescindere. Ammettendo l’esistenza di un competitor più forte, Avis ha evidenziato i propri limiti trasformandoli in punti di forza. Arrivare al secondo posto dopo Hertz significa non potersi permettere di sgarrare: per questo motivo, come suggeriscono gli ad, Avis deve impegnarsi il doppio — non può permettersi di trattare i clienti con scortesia o di farli aspettare; non può permettersi di noleggiare automobili sporche o con poca benzina. La campagna mette in luce un’attenzione al proprio pubblico derivante proprio dal fatto di non essere il leader di mercato: in quest’ottica, per il cliente è più conveniente scegliere il ‘secondo arrivato’.

Questo spot del 2016, ideato dall’agenzia Tbwa, è costruito in modo simile: Burger King riconosce il fatto che i punti vendita del suo principale competitor (McDonald’s) siano distribuiti in modo più capillare, ma suggerisce che le sue specialità siano talmente buone che i suoi clienti siano disposti a fare molti più chilometri per poterle gustare, limitandosi ad acquistare solo un caffè dal ‘rivale’ allo scopo di ‘resistere’ svegli fino al primo Burger King disponibile, salvo poi riconoscere (sul finale) che “non era poi così lontano”.

Dissacrare con leggerezza

Parliamo infine di una campagna molto fortunata, realizzata per Apple da TBWA\Media Arts Lab dal 2006 al 2009. Gli spot in questione mettono in scena la rivalità con il colosso di Bill Gates, già sottintesa fin dal lancio del Mac: se il celebre spot del 1984 faceva intendere che il nuovo prodotto della Apple avrebbe posto fine al monopolio di Windows, nel 2006 i toni sono meno epici, ma il messaggio è altrettanto efficace.

Nella serie di spot in questione, due attori interpretano rispettivamente il Mac e il PC: il primo è un giovane in abiti casual, il secondo è un uomo di mezz’età in giacca e cravatta. Il dialogo fra i due personaggi mette in luce le differenze fra PC e Mac, suggerendo come ci sia altrettanta differenza fra i tipici fruitori dell’uno e dell’altro device: il cliente di Microsoft è goffo e un po’ impettito, mentre quello di Apple è disinvolto e sicuro di sé. Nel primo spot della serie, il personaggio che interpreta il Mac evidenzia le capacità del PC in relazione a mansioni tecniche (“Dovreste vedere cosa riesce a fare con un foglio di calcolo”), ma poi afferma di essere meglio del competitor per quanto riguarda fotografie, musica e video. Il personaggio che incarna il PC rimane imbambolato di fronte alla dichiarazione del competitor (“Ehi, aspetta… in che senso meglio?”), dimostrando la propria inettitudine nel dialogo che segue, mentre il Mac appare brillante e consapevole, in pieno controllo della situazione. Con questa serie di sketch, Apple è riuscita a essere dissacrante al punto giusto, valorizzando le proprie caratteristiche e ironizzando sulle lacune del proprio competitor senza mai risultare offensiva.

Se vuoi realizzare una campagna che valorizzi il tuo brand, contattaci.

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Filed Under: Advertising, Campagne Marketing

Torce di libertà: marketing ed emancipazione femminile

9 Marzo 2022

La celebre campagna Torches Of Freedom, ideata da Edward Bernays quasi un secolo fa, continua a essere un esempio magistrale di come una buona strategia di marketing possa estendere il proprio target di riferimento e, al contempo, influenzare l’opinione pubblica, accompagnandosi ai grandi movimenti sociali del proprio tempo.

Lo stigma della fumatrice

Negli Stati Uniti, all’inizio del XX secolo, c’era un forte stigma sociale legato alle fumatrici. L’atto di fumare in pubblico era considerato immorale se compiuto da donne. Alcuni stati americani fecero addirittura ricorso alla legislazione: nel 1908, il Consiglio di Assessori di New York approvò con voto unanime un’ordinanza che proibiva alla donne di fumare in luoghi pubblici. Inoltre, l’International Tobacco League fece di tutto per impedire che in film e pubblicità venissero raffigurate donne che fumavano, a meno che non si trattasse di prostitute o di altri modelli femminili considerati negativi.

Durante la Prima Guerra Mondiale, le donne sostituirono gli uomini sul posto di lavoro e, potendo godere di una maggiore libertà e indipendenza, cominciarono a farsi meno problemi nel fumare, ma per la società americana si trattava di un tabù difficile da sradicare…

1928: il contributo del marketing

Poi arrivò il marketing: nel 1928, George Washington Hill, Presidente dell’American Tobacco Company, si rese conto di quanto sarebbe stato redditizio estendere il mercato delle sigarette alle donne (“sarà come trovare una miniera d’oro proprio nel nostro cortile”), ma dovette scontrarsi con i forti pregiudizi dei suoi contemporanei: l’opinione comune era vicina a quella del proprietario di un hotel che, intervistato dal New York Times, dichiarò che “le donne non sanno davvero cosa farci, con il fumo. Non sanno neanche tenere correttamente in mano le sigarette”. Ciononostante, i produttori di tabacco continuavano a sperare di poter includere le donne fra i propri consumatori: nel 1925 Lucky Strikes, su suggerimento del pubblicitario Albert Lasker, puntò sull’effetto dimagrante delle sigarette per catturare l’attenzione del pubblico femminile e soprattutto delle ragazze più giovani, determinate a incarnare un nuovo ideale di bellezza, rappresentato dalle flapper, che aspirava alla magrezza. La campagna funzionò, ma le donne avevano ancora timore di accendere una sigaretta in pubblico.

Fu così che Washington Hill decise di assumere Edward Bernays, oggi considerato il padre delle Pubbliche Relazioni, per capire come approcciarsi a questo segmento di pubblico. Bernays, a sua volta, si fece consigliare dallo psicanalista Abraham Brill, il quale dichiarò che l’istinto di fumare fosse giustificato per le donne, sempre più investite di incarichi fino ad allora tipicamente maschili. Lo stesso Bernays, nipote di Sigmund Freud, era stato il primo a teorizzare che le persone potessero essere spinte a desiderare prodotti di cui non avevano bisogno sulla scia di desideri inconsci, e — ispirato dai movimenti della prima ondata femminista — decise di connotare le sigarette come un simbolo di libertà e uguaglianza fra i sessi: “Oggi l’emancipazione delle donne ha soppresso molti dei loro desideri femminili. Più donne ora fanno lo stesso lavoro degli uomini. Molte donne non hanno figli; quelle che ne fanno ne hanno di meno [rispetto a prima, ndr). […] Le sigarette, che sono associate agli uomini, diventano fiaccole di libertà”.

A scopo promozionale, Bernays assunse un gruppo di donne (dovevano essere attraenti, ma sembrare persone comuni, non modelle) che potessero marciare durante la Easter Holiday Parade di New York nel 1929, sfoggiando le loro “fiaccole di libertà”.
Bernays aveva anticipato alla stampa che quel giorno qualcosa di scandaloso sarebbe accaduto e infatti, sul finire della parata, una decina di donne cominciarono a fumare. Le foto e il filmato di quella manifestazione fecero il giro del mondo e la marcia fu presto associata alla lotta femminista, animando il dibattito socio-culturale in tutti gli Stati Uniti.

Quelle giovani donne apparivano non solo emancipate, ma anche affascinanti: è stato anche grazie a queste influencer ante-litteram che la sigaretta si affermò come simbolo di uno stile di vita glamour, accompagnandosi alle dive del cinema. Per noi oggi è inconcepibile pensare di associare valori positivi a un’attività nociva per la salute, ma all’epoca, come scrive lo storico Allen M. Brandt, la sigaretta diventò un simbolo di “indipendenza ribelle, eleganza, seduzione e fascino sessuale sia per le femministe che per le flapper”.

L’impatto della campagna

Sulla scia del successo di Torches Of Freedom, i marchi di sigarette si concentrarono sempre di più sul nuovo target: Chesterfield tirò in ballo il suffragio universale (“le donne hanno iniziato a fumare quasi nel momento in cui hanno iniziato a votare”) e Philip Morris incitò le donne a credere in loro stesse e, in risposta a chi le ridicolizzava, organizzò una serie di conferenze allo scopo di insegnar loro “l’arte” del fumare.

Il lavoro di Bernays non si esaurì con la marcia del ‘29: nel 1934, ad esempio, gli fu chiesto di affrontare l’apparente riluttanza delle donne ad acquistare le sigarette Lucky Strike a causa dei colori del loro pacchetto, verde e rosso, che sembravano stonare con la moda dell’epoca. L’obiettivo fu quello di trasformare il verde in un colore di tendenza: Bernays organizzò il Green Ball, un evento di beneficenza al Waldorf Astoria, a cui le signore dell’alta società avrebbero partecipato indossando abiti verdi, cambiando la concezione del colore agli occhi del pubblico e, prima ancora, della stampa e del settore moda.

Bernays riuscì, con il tempo, non solo a scardinare il tabù del fumo femminile, ma a farlo diventare un trend: la sua strategia permise di registrare un incremento delle vendite di sigarette tra le donne, che raddoppiarono tra il 1923 e il 1929. Il picco fu raggiunto nel 1965, con le fumatrici che costituivano ormai il 33,3% delle donne americane: un risultato che rimarrà stabile fino al 1977.

In seguito, fortunatamente, l’emancipazione femminile si è slegata dalle sigarette in virtù di una maggiore consapevolezza in merito ai danni del fumo, ma è comunque interessante volgere lo sguardo a un’epoca lontana in cui marketing e femminismo si sono alleati a favore della libertà, facendo la storia della comunicazione pubblicitaria.

 

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1984: Ridley Scott e Apple, lo spot che ha cambiato la storia

2 Febbraio 2022

Dopo l’articolo che abbiamo dedicato a Ingmar Begrman, continuiamo a parlare di come cinema e pubblicità possano incontrarsi grazie al contributo dei più celebri registi.
In questo post vogliamo fare luce sull’esperienza pubblicitaria di Ridley Scott per poi analizzare il celeberrimo spot da lui diretto per Apple traendo ispirazione da 1984 di George Orwell.

Ridley Scott, l’esperienza in pubblicità

Quando Ridley Scott raggiunse il grande successo con Alien (1979), alle sue spalle aveva 20 anni di esperienza in pubblicità e la regia di circa 2.000 spot. Erano tempi competitivi, in cui si girava molto: circa 100 spot all’anno, due alla settimana. “Arrivavo dall’era dell’advertising stile Mad Men, stavamo forgiando il concetto moderno di pubblicità”, dichiara Scott.
Il regista l’aveva presa come una sfida: “Mi ha sempre meravigliato quanto riuscissi a infilare in uno spot di 30 secondi”.
Grazie all’adv, Ridley Scott dichiara di aver imparato a “prendere in considerazione la domanda più basica: sto comunicando o sto mancando il bersaglio? Se non stai comunicando, non puoi fare un film di successo”.

Scott afferma che la capacità di “vendere” una storia al pubblico deriva direttamente dalla sua esperienza in ambito pubblicitario, che considera al pari di una “scuola di cinema” che gli ha insegnato a ottimizzare i budget e a rispettare le scadenze. In poche parole, girare spot gli ha permesso di passare dalla teoria alla pratica, acquisendo un metodo di lavoro che avrebbe conservato per il resto della sua carriera.

Come accaduto ad altri registi britannici che arrivavano dall’advertising, Scott è stato spesso criticato per il fatto di dare troppa importanza all’estetica: “Dicevano che il mio girato era troppo basato sull’immagine, un’eredità della mia esperienza nel marketing. Cosa c’è di male? Non sto facendo un’opera radiofonica, ma qualcosa da vedere”.

Ad esempio, le atmosfere oniriche dello spot “Share the fantasy”, girato da Scott per Chanel No 5 nel 1979, anticipano l’estetica di alcuni dei suoi successivi film.

Nel 1985, qualche anno dopo il grande successo di Blade Runner (1982), Scott gira per Pepsi uno spot che immerge lo spettatore in un mondo notturno, fatto di colori al neon.

La capacità del regista di creare atmosfere suggestive, con una grande attenzione all’estetica e uno spiccato gusto per il surreale, costituirà un contributo fondamentale nello spot che stiamo per analizzare.

Lo spot di Apple

22 gennaio 1984

“Alcune persone dicono di dare ai clienti quello che vogliono, ma questo non è il mio approccio. Il nostro lavoro è capire cosa vogliono prima che lo vogliano”, dichiarava Steve Jobs a Playboy nel 1985.
Questo mantra è perfettamente incarnato dal celebre spot 1984, realizzato per Apple da Ridley Scott in collaborazione con l’agenzia Chiat/Day di New York.
Lo spot debutta il 22 gennaio 1984 durante una pausa pubblicitaria del Superbowl, segnando un momento storico non solo per la Apple, ma per la stessa manifestazione sportiva, che proprio da quel momento comincerà ad essere considerata dagli inserzionisti come l’evento cardine dell’intero palinsesto televisivo statunitense.
La forza evocativa dello spot in questione deriva anche dal fatto che sia stato trasmesso solo una volta a livello nazionale, proprio in quell’occasione.

1984

Lo spot pescava dall’immaginario fantascientifico dei primi anni ‘80, ben rappresentato da Blade Runner, e dall’atmosfera distopica di 1984.

L’ambientazione è scura, forse sotterranea: vediamo una fila di persone che marciano in modo robotico, ipnotizzate dalla propaganda del Grande Fratello, mentre una giovane donna inseguita da guardie con l’elmetto corre attraverso un tunnel brandendo un martello. L’eroina, interpretata dall’atleta inglese Anya Major, indossa una maglietta con il logo di Apple e una sagoma che rappresenta il Macintosh. Prima che possano fermarla, lancia il martello sullo schermo gigante interrompendo la propaganda del dittatore. L’esplosione risveglia le masse dalla loro ipnosi mentre il narratore recita: “Il 24 gennaio Apple Computer introdurrà Macintosh. E vedrai perché il 1984 non sarà come 1984”.

La sfida di Apple

Con questo spot Apple dà inizio a una rivoluzione. Innanzitutto per l’audace sfida lanciata a IBM, rappresentata come un’autorità a capo di un monopolio che fa il lavaggio del cervello alle masse. In questo contesto, Apple si presenta come l’eroina, l’outsider che alla fine trionfa, stupendo tutti. Forse non è un caso che a rappresentare il marchio sia una donna, alla luce delle lotte femministe del decennio precedente, che si erano riflesse anche nel cinema di Scott (Alien, 1979).

A rendere ancora più potente il messaggio è il fatto che non ci sia un prodotto fisico su cui concentrare la propria attenzione. Come fa notare Ridley Scott, lo spot non dice cosa sia o cosa faccia il Mac, né tantomeno lo mostra. Sotto questo punto di vista, 1984 ha aperto la strada all’adv contemporaneo, in cui i valori del brand arrivano prima del prodotto o del servizio da vendere. Grazie a questo spot, la Apple si è affermata come un’alternativa creativa e dirompente rispetto al monopolio di IBM. Secondo Walter Isaacson, “lo spot ha iniettato il DNA di Steve Jobs nello spirito di Apple”, influenzando per sempre l’immagine del brand, tutt’oggi indissolubilmente legato al concetto di libertà, ribellione, anticonformismo.

Ironicamente, nel 2020, il franchise videoludico di Fortnite riprenderà il concept del celebre spot del 1984 per scagliarsi contro il ban ricevuto dall’Apple store, insinuando che Apple sia passata dalla parte dei cattivi: possiamo parlare di un nuovo “1984”?

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SEO: buone pratiche per migliorare il proprio ranking

26 Gennaio 2022

 

Adottare buone pratiche per l’indicizzazione e conoscere i parametri di base per l’ottimizzazione SEO può aumentare il ranking del proprio sito all’interno dei risultati di ricerca di Google. Scopriamo quali sono gli accorgimenti da adottare nel 2022.

 

Regole di base

Ottimizza la tua presenza nella SERP

Chi trova il sito di un’azienda fra i risultati di ricerca di Google dovrebbe farsi subito un’idea chiara del brand in questione, capendo a colpo d’occhio di cosa si occupa e come può rispondere alle esigenze del suo target. La prima cosa da fare è reclamare e ottimizzare la scheda Google My Business della propria attività. I risultati del report annuale di Google (Year in Search 2021) hanno inoltre registrato un crescente interesse nei confronti delle attività commerciali di prossimità, favorito dall’utilizzo di ricerche vocali: una geolocalizzazione accurata risulta dunque fondamentale per i business B2C che si occupano di vendita al dettaglio.

 

Rispondi agli intenti di ricerca

Le parole chiave non hanno la stessa importanza di un tempo: da diversi anni Google premia molto di più il fatto che un sito riesca a rispondere all’intento di ricerca dell’utente, ossia al problema che vuole risolvere, alla domanda a cui cerca risposta.
Insomma, per essere trovati dai clienti è importante chiedersi quali possano essere i loro bisogni e come poterli soddisfare.
È fondamentale che i contenuti richiesti siano facili da trovare (la struttura del sito dev’essere intuitiva), reperibili in breve tempo (il sito deve caricarsi velocemente), ed espressi in modo chiaro ed esauriente, altrimenti l’utente cercherà altrove. Alla luce di questo, può essere utile creare una pagina FAQ che raccolga tutte le domande più gettonate e/o impostare i testi più importanti del sito come se ogni paragrafo costituisca la risposta ad un quesito posto dall’utente.

 

Mobile First, velocità, sicurezza e accessibilità

In linea con le abitudini di navigazione degli utenti, Google pone molta più attenzione alla versione mobile dei siti rispetto a quella per desktop. È importante assicurarsi dunque che l’esperienza di navigazione da cellulare sia soddisfacente, che il layout sia responsive, che le pagine vengano caricate in breve tempo e che siano sicure e protette grazie all’installazione di protocolli SSL.
In generale, Google favorisce siti che siano user friendly – la user experience è sempre al centro di ogni strategia SEO – e che presentino contenuti fruibili anche dagli utenti diversamente abili. Consigliamo quindi di ottimizzare l’accessibilità del sito compilando il Testo Alternativo (ALT text) in tutte le immagini: questo permetterà alle persone non vedenti di conoscerne il contenuto. Si consiglia inoltre di scegliere sempre immagini pertinenti e di qualità, rinominate con le keyword corrette, e di non pubblicare file troppo “pesanti” che rallenterebbero la navigazione.

 

Testi approfonditi, linguaggio naturale

Si consiglia di redigere articoli lunghi, approfonditi e ben strutturati.
È importante che i testi rispettino i criteri del paradigma di Google EAT, ossia expertise (esperienza), authoritativeness (autorevolezza) e trustworthiness (affidabilità), che pongono le loro basi sulla reputazione online e dunque anche sulla presenza di backlink.
È inoltre fondamentale ottimizzare il proprio testo in modo che risulti funzionale alla sempre più diffusa ricerca vocale, che non si basa quasi mai su una parola chiave secca, ma su query discorsive e dunque su un linguaggio naturale.
 Dal 2015, questo fattore viene valutato da Google BERT (Bidirectional Encoder Representations from Transformers), un update dell’algoritmo del motore di ricerca grazie a cui il browser è in grado di comprendere il linguaggio naturale degli utenti e dunque i loro intenti di ricerca. A BERT si aggiungerà presto MUM (Multitask Unified Model), un nuovo modello in grado di comprendere in modo ancora più profondo i sentimenti, il contesto e le intenzioni dell’utente. Come suggerisce il suo nome completo, MUM è anche multitasking: gli utenti potranno combinare testo, immagini e voce per ottenere risultati ancora più rilevanti per le loro query di ricerca. Ad esempio, sarà possibile chiedere se un paio di scarponi (con foto allegata) possano essere adatti per un’escursione sul Monte Bianco: in caso di risposta negativa, l’algoritmo potrebbe consigliare un prodotto più adatto allo scopo. Le possibilità fornite da questo nuovo strumento sono davvero ampie e mai sperimentate prima.


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