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Agenzia di comunicazione

Creatività

Advertising: 6 metodi per sviluppare la creatività

20 Agosto 2021

Si sente spesso parlare della creatività come di una dote innata, strettamente legata all’arte e alla libertà di pensiero.
Tuttavia, come sa bene chi si occupa di advertising, la creatività può essere sviluppata, organizzata e incanalata.

Esperimenti sulla creatività

Nel 1999, un team di ricercatori israeliani condusse un esperimento sulla creatività nel settore pubblicitario. Analizzando un campione di 200 pubblicità che in quell’anno avevano riscosso successo, riuscirono a classificarle all’interno di 6 modelli possibili, con una rispondenza dell’89%. In seguito, analizzarono 200 pubblicità che non avevano riscosso successo, accorgendosi che solo il 2% di esse corrispondeva a uno dei 6 modelli di creatività individuati.
L’esperimento venne criticato per la sua metodologia: partire da un effetto per trovare la causa non ne avvalorava la validità scientifica.
Gli scienziati condussero dunque un nuovo esperimento, chiedendo a tre gruppi di individui estranei all’ambito pubblicitario di ideare delle campagne creative, che sarebbero poi state mostrate a gruppi di consumatori:

  • Il primo gruppo di candidati non fu addestrato in nessun modo: le loro pubblicità vennero considerate fastidiose.
  • Il secondo gruppo fu istruito per due ore sulla tecnica di associazione libera di idee e brainstorming: le loro pubblicità vennero considerate meno fastidiose, ma non creative.
  • Il terzo gruppo fu addestrato sulle 6 tecniche individuate grazie al precedente esperimento: le pubblicità furono considerate il 50% più creative di quelle viste in precedenza.

I modelli furono quindi considerati validi, e vennero riportati in una pubblicazione scientifica dal titolo The Fundamental Templates of Quality Ads, ad opera dei ricercatori Jacob Goldenberg, David Mazursky e Sorin Solomon.
Quali sono, quindi, questi 6 metodi scientificamente provati?
Scopriamolo insieme!

6 modelli per sviluppare la creatività

1. Analogia visiva

Il primo modello si basa sull’accostamento fra la forma del prodotto e un simbolo che rappresenta il messaggio che il brand vuole trasmettere.
Ad esempio, all’alba della vittoria dell’Italia agli Europei di Calcio 2020, Birra Peroni associa la forma della propria bottiglia a un abbraccio fra un tifoso italiano e uno inglese: la birra unisce, perfino in questa circostanza.

2. Situazioni estreme

Il secondo modello sfrutta contesti assurdi e irrealistici per valorizzare i punti di forza del prodotto. Ad esempio, questo ad degli anni ‘90 gioca sull’alto livello di coinvolgimento garantito da un videogioco come Mortal Kombat.

Un’altra situazione paradossale è quella rappresentata da quest’ad dei coltelli WMF, talmente affilati da sminuzzare perfino il tagliere.

3. Le conseguenze estreme dell’utilizzo o meno del prodotto

Questo modello mostra le estreme conseguenze della presenza o dell’assenza del prodotto nella vita del consumatore.
Si gioca ancora con il paradossale, come in quest’ad di Aquafresh in cui i denti lavati con il noto dentifricio sono così smaglianti da brillare al buio, e quindi necessitano di una mascherina per la notte.

È interessante notare come l’estrema efficacia del prodotto non venga sempre associata a conseguenze positive. Pensiamo ad esempio a questo ad di Bose: le cuffie prodotte dall’azienda trascinano il consumatore in una bolla insonorizzata, impedendogli di accorgersi dei pericoli che lo circondano.

4. Il confronto

In questo modello, il prodotto è posto in contrasto con un elemento molto diverso da esso: normalmente non ci sarebbe gara, ma le caratteristiche del prodotto pubblicizzato sono talmente virtuose da prevalere nel confronto. Lo vediamo in quest’ad di Ford in cui l’automobile del brand riesce a trascinare una nave sul ghiaccio:

Il confronto non avviene per forza sempre fra due prodotti, come vediamo in quest’ad di Arena in cui è l’uomo (che indossa il costume del brand) a rincorrere lo squalo:

5. Esperimento interattivo

Il modello invita il consumatore a prendere parte all’ad: la sua partecipazione, spesso mediante un semplice gesto, mette in luce il valore del prodotto o servizio pubblicizzato.
L’esperimento di DHL, ad esempio, mette in luce l’efficienza della sua consegna a diversi destinatari: è semplice e veloce come girare una pagina (o scorrere un dito sul tablet)!

6. Alterazione dimensionale, spaziale o temporale

Questo modello gioca con i parametri di spazio e tempo in relazione al prodotto pubblicizzato.
L’ad di Rubik, ad esempio, immagina che il consumatore abbia passato oltre 25 anni cercando di risolvere il suo enigma:

La dimensione spaziale invece modifica le dimensioni del prodotto o servizio, andando a creare situazioni paradossali, come quella dell’ad di Scotch:

Noi di Siks mettiamo a frutto la nostra creatività per la comunicazione del tuo brand, contattaci!

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Filed Under: Advertising, Creatività

Ingmar Bergman e gli spot sul sapone, fra cinema e advertising

21 Aprile 2021

Nel campo dell’advertising, la forza di un grande creativo sta nel fatto di riuscire a esprimersi appieno in ogni circostanza, trovando il giusto compromesso fra arte e pubblicità, creatività ed esigenze commerciali.
Un esempio virtuoso è costituito dal grande regista Ingmar Bergman, che all’inizio degli anni ‘50 si dedica a una serie di spot per una marca di saponi svedese.

Bergman e la pubblicità: com’è successo?

È il 1951: Ingmar Bergman ha 33 anni, sei bambini e tre famiglie da mantenere, mentre nell’industria cinematografica svedese impazza lo sciopero, per protestare contro le alte tasse del governo sull’intrattenimento.
Il regista, che ha un disperato bisogno di soldi, accetta la proposta di dirigere una serie di nove spot di poco più di un minuto l’uno. Il brief del cliente è semplice: ogni episodio deve illustrare l’elemento di novità del sapone antibatterico Bris, il primo con proprietà deodoranti, attraverso lo slogan “fri, frisk, frasche”.

Nonostante la collaborazione nasca per scopi meramente economici, Bergman saprà sfruttare l’occasione per sperimentare qualcosa di nuovo.

Gli spot di Ingmar Bergman per il sapone Bris

Tutti lo conoscono per la morte che gioca a scacchi e per film densi di significato e mal di vivere, incentrati su temi come i rapporti di coppia, la malattia, l’esistenza di Dio e il suo silenzio.
Sorprende, quindi, che gli spot da lui realizzati siano leggeri, fanciulleschi e spensierati: in uno di questi il sapone è inventato in sogno e viene considerato degno di un Nobel, in un altro è frutto dell’ingegno di un guardiano di porci, che viene ricompensato con cento baci dalla principessa (una Bibi Anderson al suo debutto).

Bergman si diverte a costruire scenette surreali e futuriste animate da figure sospese fra il meraviglioso e il grottesco: batteri in calzamaglia bianca rincorsi da saponi giganteschi in mezzo a foreste di peli; scienziati pazzi; figuranti in costumi settecenteschi che si aggirano tra cortigiani da operetta.
Assistiamo poi a spettacoli di marionette, a sequenze animate… insomma, sembra che Bergman abbia voluto costruire un mondo fantastico nel quale ritrovare il sé bambino che, con gli occhi pieni di meraviglia, scopriva la magia del cinema.

Quello che Bergman conduce non è altro che un gioco di prestigio, in cui la linea di confine fra realtà e sogno, come nel suo cinema, è fluida ed evanescente: la passione per il teatro e per l’arte di Méliès si manifesta in un gioco di finzioni, illusioni e ammiccamenti con lo spettatore, in cui è lo stesso regista-“mago” a svelare il trucco cinematografico. Ad esempio, l’episodio intitolato “Gustav III” si apre con una scena alla corte del più celebre re svedese, ma un movimento di macchina ci svela che ci troviamo sul set dello spot che stiamo guardando e un’attrice, di fronte a un tavolo, legge lo slogan del marchio, evidenziando quella commistione fra finzione e realtà che è propria del cinema e, suggerisce Bergman, anche della pubblicità.

L’influenza degli spot nella cinematografia di Bergman

Più che una costrizione, i nove spot sembrano costituire, per il regista, una fonte di evasione dalla sua consueta poetica: come spiega Francesco Bono, professore di Cinema, “in queste pubblicità le ossessioni bergmaniane sono presenti in ogni scena, ma vanno viste in una chiave liberatoria”.

Per quanto strano possa sembrare, gli spot del sapone Bris si inseriscono perfettamente all’interno della cinematografia di Bergman, introducendo una leggerezza, un umorismo e una vivace giocosità che, seppur in contrasto con la nomea di regista serio e tragico con cui è noto ai posteri, ritroveremo in opere come “Donne in attesa” (1952) e “Sorrisi di una notte d’estate” (1955).
Torneranno anche i riferimenti alla fiaba e alla magia: il bosco di cartapesta che fa da sfondo allo spot della principessa e del porcaio precorre “Il flauto magico” (1974), mentre la figura del presentatore che introduce lo spettacolo di magia rimanda a “L’occhio del diavolo” (1960) e il batterio in mantello scuro, con un cappello a falda larga, che insegue la goccia di sudore, evoca uno stregone che sembra uscito dal medioevo de “Il settimo sigillo” (1957). Inoltre, nei nove spot troviamo molti dei dispositivi stilistici e dei motivi che Bergman avrebbe utilizzato in seguito nei suoi grandi capolavori: specchi, doppi, l’azione di entrare o uscire da una storia come con un telescopio.

In definitiva, gli spot del sapone Bris costituiscono un vero e proprio anello di congiunzione all’interno della produzione cinematografica del regista.

Ingmar Bergman fra cinema e pubblicità

“Mi divertii a provocare lo stereotipico settore pubblicitario”, ha affermato Bergman, “potevo fare con il messaggio commerciale tutto quello che volevo”. Forse si può dire che il regista abbia piegato l’advertisement al suo volere, prendendosene gioco e sfruttandolo per sperimentare nuove forme narrative per il suo cinema, ma al contempo si è adeguato ai suoi schemi. Lo sostiene Oliviero Toscani: “Sono rimasto impressionato dalla velocità e dal ritmo degli spot di Bergman. Quello che si pensava dovesse essere l’ultimo a fare pubblicità ha invece dimostrato di essere stato il primo a intuirne le potenzialità. Senza cedere a contorsioni intellettuali e snobistiche”.

Insomma: Ingmar Bergman ha trovato il giusto compromesso fra cinema e advertising, arte e pubblicità.
Anche noi di Siks Adv troviamo sempre il giusto equilibrio fra creatività ed esigenze commerciali: contattaci per saperne di più!

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Filed Under: Advertising, Creatività

Font, logotipo e pittogramma dei brand più famosi

22 Marzo 2021

Sapevate che anche i loghi più famosi hanno storie normalissime, che partono da un semplice font, da un’intuizione improvvisa o da una casualità?
Scopriamo insieme i processi creativi dietro ai loghi più famosi del mondo analizzandone logotipo (la parte testuale, creata da zero o a partire da un font) e pittogramma (simbolo grafico).

Coca Cola

Il logo di Coca Cola è stato creato nel 1886 da un semplice contabile, Frank Mason Robinson, che aveva certo più a che fare con i numeri che con la grafica. Infatti la scelta del font non fu particolarmente originale: si trattava dello Spencerian Script, che a quei tempi era molto in voga negli Stati Uniti, tanto da apparire inflazionato.
Eppure la scelta si rivelò vincente: da allora, se si esclude un tentativo di redesign nel 1980, il logo è rimasto sempre lo stesso, andando incontro solo a lievi modifiche.

Nike

Dietro a uno dei loghi più iconici del mondo si nasconde la storia più vecchia del mondo: lo sfruttamento di una studentessa sottopagata!
Scherzi a parte, è così che andò: Carolyn Davidson, studentessa di grafica della Portland State University, disegnò il logo Nike nel 1971, per soli 35 euro.
Il fondatore della Nike, inizialmente scettico di fronte al celebre swoosh (“Lo trovo banale”), dovette presto ricredersi: il pittogramma rese immediatamente riconoscibile il brand. La storia regalò un lieto fine anche alla designer, che ricevette alcune delle azioni dell’azienda.
Di fronte alla potenza evocativa del pittogramma, la scritta “Nike” assume minore importanza, ma pensiamo sia comunque interessante spendere due parole a riguardo: il font utilizzato a partire dal 1978 è il Futura, considerato il font geometrico per eccellenza, qui declinato in versione Bold Condensed Oblique. In linea con lo swoosh, il font esprime forza (suggerita dal bold), dinamicità (data dall’inclinazione) e stabilità (ispirata dalla forma squadrata dei caratteri).

Google

Non ci crederete, ma Sergey Brin, co-fondatore di Google, creò il logo nel 1997 grazie all’aiuto di un programma gratuito che viene snobbato da molti grafici: GIMP.
Il font utilizzato fino al 2015 è il più “classico” che ci sia, il Times New Roman, mentre la versione attuale presenta un font sans serif (senza grazie) in modo da apparire più leggibile da mobile.

Youtube

Il logo di YouTube, colosso del video sharing online, prende ispirazione dalla fonte che meno vi aspettereste: la carta stampata!
Il font, infatti, deriva dall’Alternate Gothic, progettato da Morris Fueller Benton nel 1903 per l’American Type Founders Company. Lo scopo era quello di creare un carattere che risultasse perfettamente leggibile anche negli strettissimi titoli di colonna dei quotidiani.
Insomma, l’Alternate Gothic è un carattere chiaro, intuitivo, riconoscibile… tutte caratteristiche ricercate da YouTube per il proprio logo.

McDonald’s

Il font utilizzato da McDonald’s è Akzidenz Grotesk, progettato dalla fonderia tedesca H. Berthold AG nel 1898.
A una prima occhiata sembra familiare perché è alla base di caratteri conosciutissimi come Helvetica, Univers, Arial, etc.
Il pittogramma invece si ispira agli archi gialli che, a partire dagli anni ‘60, adornavano le entrate dei punti vendita del marchio: visti da una certa prospettiva, sembravano formare una grande M, da qui arriva l’intuizione per l’iconico simbolo.

Apple

Chiudiamo con uno dei loghi più enigmatici ed emblematici del mondo, che inizialmente… era fin troppo elaborato e didascalico!
Il logo originale, ideato dal co-fondatore Ronald Wayne nel 1976, era composto da un’illustrazione di Isaac Newton sotto un albero di mele, luogo in cui avrebbe avuto l’ispirazione per la scoperta della legge di gravitazione universale. Se già vi sembra troppo, sappiate che non è tutto: oltre a riportare l’intera dicitura “Apple Computer Co.”,
il logo includeva anche una lunga citazione del poeta romantico William Wordsworth: “Newton… a mind forever voyaging through strange seas of thought… Alone”.

Resosi conto che il logo non funzionava, il co-fondatore Rob Janoff, dopo aver acquistato delle mele al supermercato e averle tagliate e disposte sul tavolo, propose la celebre mela con il morso (aggiunto, banalmente, per far sì che la mela non si confondesse con una ciliegia): il resto è storia.
Il simbolo si è rivelato essere talmente potente che, dal 1984 in poi, il logo della Apple mostra solo la mela, senza scritte aggiuntive: less is more, decisamente.

A volte basta una semplice intuizione per dare vita a un simbolo eterno. Noi di Siks possiamo aiutarti a rendere riconoscibile il tuo brand con un logo che lo rappresenti al meglio: contattaci!

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Filed Under: Creatività

Coronavirus e spot, inizia la “Fase 2” contro i cliché

30 Aprile 2020

“In questi tempi difficili”. “Siamo qui per te”. “Distanti, ma uniti”.
Quante volte abbiamo sentito queste frasi, negli ultimi mesi? 
Infinite, tanto che ormai le scriviamo e le ascoltiamo senza quasi accorgercene.
Dobbiamo però renderci conto, come creativi, che è tempo di voltare pagina, prima che queste parole perdano completamente valore e significato.

I cliché degli spot sul Coronavirus

Ci viene in aiuto un video caricato recentemente su YouTube, che con un sapiente montaggio “smaschera” tutti i cliché degli spot delle aziende sul Coronavirus. Analizziamoli punto per punto.

La musica

Si parte con qualche nota suonata lentamente al piano, una base musicale — non importa quanto blanda — con l’unico obiettivo di trasmettere immediatamente un “mood” triste, serio e al contempo pieno di speranza, puntando sull’emozione.

“Since…”

Ogni azienda ci tiene a evidenziare la propria data di fondazione, e qui è la solita battaglia sui numeri fra chi è aperto da 40, 60, 80 anni…
Naturalmente il concetto è “We have always been there for you”, ci siamo sempre stati per te, nella buona e nella cattiva sorte.

Ora più che mai

Poi naturalmente si rimanda alla situazione attuale, con espressioni ormai inflazionate come “Ora più che mai” o “In questi tempi difficili”. 
In riferimento ai “tempi” (“times”) che stiamo vivendo, notiamo in particolare l’utilizzo di aggettivi come “uncertain” (“incerti”) e “unprecedented” (“mai vissuti prima”).

Un’unica, grande famiglia

Le aziende vogliono ribadire di essere vicine alla gente, per questo fra le parole più ripetute ci sono “People” e “Family”, a testimoniare come, in questo periodo, siamo tutti una grande famiglia.

Distanti, ma uniti

Si arriva quindi al principio cardine, reso popolare in Italia dal premier Giuseppe Conte, e diffusosi in tutto il mondo insieme alla pandemia: nonostante la distanza, possiamo trovare un modo per stare vicini.

Siamo qui per te

Naturalmente le aziende rassicurano chi guarda ribadendo di essere presenti e vicine al consumatore: “We are here for you”.

Insieme ce la faremo

Un altro concetto fondamentale: supereremo questa situazione insieme. “Together” è infatti una delle parole più ripetute in questi spot.

Le immagini

Gran parte degli spot iniziano con riprese dall’alto su strade deserte e poi immagini che rimandano al concetto di comunità, all’interno (inquadrature degli operai al lavoro, ad esempio) e all’esterno dell’azienda. I montaggi che mostrano la vita quotidiana dei cittadini a casa, perfino quelli che presentano contenuti forniti dai consumatori stessi, appaiono già inflazionati, artificiosi e stucchevoli.
Infine, una chicca che farà ricredere tutti coloro che pensavano che i flashmob con gli applausi al balcone fossero una “cafonata” tutta italiana. La pandemia sta dimostrando, purtroppo o per fortuna, che tutto il mondo è paese, e così l’applauso collettivo costituisce il finale a effetto di diversi spot: qui vediamo gli esempi di Samsung, Google e Mastercard.

Fase 2

Il montaggio che abbiamo appena visto ci permette di “decostruire” una tipologia di comunicazione che si era rivelata sensata, e probabilmente anche fruttuosa, nei primi tempi della pandemia.
 L’emergenza Coronavirus è capitata “fra capo e collo”: le aziende hanno giustamente sentito il bisogno di comunicare qualcosa nell’immediato, e questi spot sono ciò che di più logico si potesse fare con così poco preavviso. Tuttavia, siamo ormai giunti, anche nel campo dell’advertising, a una “Fase 2” dell’emergenza, in cui è necessario comunicare in modo diverso.
Prima di tutto, le aziende devono ricominciare a far emergere la loro individualità, la loro brand identity. Con lo scoppiare dell’epidemia, hanno cominciato a comunicare tutte allo stesso modo, e ora devono rimediare. Non potranno dire le stesse cose che dicevano prima, e infatti abbiamo visto quante campagne sono state ritirate perché non in linea con l’emergenza, ma dovranno trovare il giusto compromesso.
Di conseguenza, la creatività è fondamentale. Purtroppo, si contano sulle dita di una mano gli spot davvero creativi in questo periodo. Sono ancora meno gli spot che puntano sulla leggerezza. Certo, su un’emergenza come quella del Coronavirus non c’è niente da ridere, ma il proliferare di meme sull’argomento è sintomatico della volontà degli italiani di sdrammatizzare. E allora, se come brand non ci permetteremmo mai di ridicolizzare o sminuire una situazione del genere, possiamo comunque permetterci un tono più leggero.
Ad esempio Burger King dipinge chi rimane sul divano come un vero eroe americano, concetto ripreso da PENNY in Germania.

Il messaggio che passa è giusto: si gioca sulla retorica dell’eroe di tutti i giorni, un cliché della comunicazione in stato d’emergenza, ma senza ridicolizzarla più del dovuto. Gli spot risultano divertenti e leggeri, per nulla offensivi o sminuenti della situazione.
A testimonianza del fatto che la creatività scarseggia, alcuni brand hanno riciclato spot del passato. In Belgio Sobry ha riproposto uno spot del 2017, ma a far parlare tutto il mondo è stato il brand di birra Budweiser, riadattando il celebre spot del 1999 che diede vita al tormentone “Whassup”. La nuova versione dello spot riprende le stesse immagini dell’originale, ma in più c’è il riferimento alla quarantena e il messaggio finale, che invita a dare un colpo di telefono ai propri amici anche solo per urlare “Whassup”, per assicurarsi che stiano bene e che non si sentano soli durante il periodo di isolamento. Il messaggio, anche in questo caso, è importante, e l’involucro “leggero” non lo inficia in alcun modo.

In conclusione

I cittadini di tutto il mondo si sono ormai abituati allo stato d’emergenza e trovano rassicurazione nella loro nuova quotidianità. Realizzare spot tutti uguali in stile “pubblicità progresso” risulta quindi controproducente, meglio puntare sulla leggerezza e su un nuovo senso di normalità.
Vuoi sapere come comunicare con i tuoi clienti nella Fase 2?
Noi possiamo aiutarti, contattaci per saperne di più.

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Filed Under: Advertising, Creatività

Treccani e i meme: divulgare cultura al tempo dei social

12 Febbraio 2020

Cosa significa “meme”?

Partiamo proprio dalla definizione della Treccani, che per “meme” intende un “singolo elemento di una cultura o di un sistema di comportamento, replicabile e trasmissibile”, non a caso il termine deriva dal greco mímēma, imitazione. Sul web, i meme sono contenuti che diventano virali proprio in virtù della loro replicabilità, che si apre a infinite rielaborazioni.

I meme di Treccani, fra “alto” e “basso”

Spesso alla base di un meme c’è un video, una gif o un’immagine che desta l’attenzione dei “memers”, pronti ad arricchirla di significato calandola in diversi contesti.
Ricollegandosi alla perpetua commistione fra “alto” e “basso” che caratterizza la sua strategia di comunicazione, Treccani riutilizza in questo contesto immagini di opere d’arte di grandi artisti italiani.
Spesso si tratta di artisti su cui la Treccani ha recentemente pubblicato un volume, in modo che i meme fungano da richiamo al libro stesso: insomma, nulla è lasciato al caso!

Sintesi visiva e potenza divulgativa

Ciò che rende i meme vincenti è la loro capacità di sintesi e l’immediatezza della loro potenza visiva, attraverso cui riescono a divertire, ma anche a trattare temi importanti e di profonda attualità.
Particolarmente utilizzato è l’escamotage dell’immedesimazione o della raffigurazione personificata di pensieri e concetti astratti: attraverso le espressioni, i gesti e l’atteggiamento dei personaggi raffigurati, si dipinge un contesto o una situazione ricollegandosi alla vita quotidiana o a temi sociali di più ampia portata. Quindi, se il meme a sinistra ironizza su qualcosa che può capitare a tutti (rendersi conto di avere torto a metà di una discussione), quello a destra evidenzia le falle di un sistema socio-economico che grava sulle spalle delle risorse del pianeta e dei diritti umani.

Utilizzando lo stesso metodo, Treccani si esprime in modo efficace anche su questioni grammaticali (attraverso la personificazione di “qual”, del verbo “è” e dell’apostrofo) o addirittura risponde in prima persona alle critiche (in questo caso rivolte al presunto inserimento del neologismo “Ferragnez” nella loro enciclopedia).

Ogni meme pubblicato da Treccani viene corredato da un testo in sovrimpressione, funzionale alla sua comprensione, e dalla didascalia del post. Quest’ultima, insolitamente lunga per gli standard social, viaggia in secondo piano rispetto al meme, in grado di veicolare in modo più efficace un messaggio proprio grazie alla sua sintesi visiva.
Il concetto viene espresso alla perfezione da questo meme di Treccani pubblicato il 20 ottobre 2019:

La didascalia del post non è quindi sempre necessaria alla comprensione del meme, tuttavia ne costituisce spesso il giusto completamento, a volte la chiave di lettura.
E, soprattutto, permette di inserire link a voci dell’enciclopedia online e riferimenti ai volumi cartacei pubblicati da Treccani.
In un certo senso, il meme costituisce un’esca per spingere l’utente ad approfondire il contesto culturale che sta dietro all’immagine grazie al supporto dell’enciclopedia. Allo stesso modo, l’elevato grado di “condivisibilità” dei meme si ricollega strettamente all’intento divulgativo dell’enciclopedia, costituendo il mezzo più adatto per diffondere la cultura nell’era dei social. Questo ragionamento ci porterebbe a pensare che Treccani utilizzi il linguaggio dei meme per rendere la cultura più “accessibile” a tutti, ma non è sempre così. Con i meme più recenti, che citano approfonditamente altri meme, format di meme e ulteriori aspetti interni alla cosiddetta “internet culture”, Treccani si rivolge a una comunità ben precisa, costituita da utenti che conoscono alla perfezione i meme e il loro linguaggio. Il rischio è quello di invertire il senso della missione enciclopedica, che mira a rendere la cultura accessibile a tutti. Treccani riesce tuttavia ad aggirare il problema diversificando i contenuti proposti e non mancando mai di fornire una chiave di lettura agli utenti più sprovveduti.

I meme di Treccani funzionano?

Proviamo a dare un responso basandoci sul livello di interazione dei post: i tredici meme pubblicati negli ultimi tre mesi hanno prodotto su Facebook una media di 1.458 reazioni, 200 commenti e 193 condivisioni e su Instagram una media più alta di ‘like’ (2.045) e più bassa di commenti, in linea con le dinamiche del canale in questione. Questi numeri sanciscono un distacco netto rispetto a tutti gli altri contenuti pubblicati dai canali social di Treccani (fatta eccezione per la rubrica “Le parole delle canzoni”, che si attesta su risultati simili) e questo dovrebbe bastare per dichiarare che sì, i meme funzionano, se si sanno fare. Producono ‘like’ e, cosa più importante, condivisioni e commenti: non si riescono a contare le dichiarazioni d’amore ai social media manager di Treccani (accompagnate addirittura da richieste di matrimonio), mentre i più sobri si limitano a dichiararli “geniali”, affermando che “mema meglio la Treccani delle pagine di shitposting”. In fondo ha senso che la Treccani, l’istituzione culturale italiana per eccellenza, sia in grado di padroneggiare qualunque tipo di linguaggio, incluso quello dei meme.

In conclusione

La strategia social di Treccani ha rinverdito la reputazione dell’enciclopedia grazie ad una comunicazione in grado di padroneggiare il mezzo social.
Grazie anche a un sapiente utilizzo dei meme, Treccani è riuscita a raggiungere un nuovo pubblico (più giovane e attento alle dinamiche del web) rimanendo sempre e comunque fedele al proprio intento: divulgare cultura.

Filed Under: Creatività, Social Media Tagged With: facebook, meme

I social di Treccani e la cultura dei meme

5 Febbraio 2020

L’enciclopedia dalla carta al web

La Treccani è stata la prima enciclopedia italiana: fondata il 18 febbraio 1925 da Giovanni Treccani, costituisce una vera e propria istituzione culturale. A novantacinque anni dalla sua nascita, la sfida dello storico Istituto dell’Enciclopedia Italiana è quella di acquisire rilevanza nel panorama contemporaneo mantenendo intatta la propria autorevolezza. Come prevedibile, la cultura enciclopedica ha perso valore nell’era di Internet, diventando una risorsa estremamente accessibile a un pubblico ignaro del valore aggiunto che separa una voce della Treccani dal primo risultato che compare su Google. A partire dal 2009, la Treccani mette a disposizione i contenuti delle proprie enciclopedie online, gratuitamente: le visite arrivano, ma questo non basta per differenziarsi da Wikipedia, regina incontrastata del sapere condiviso.

E quindi, che si fa? Treccani, che non è mai stata refrattaria al cambiamento (ha debuttato online nel lontano 1996!), capisce di dover comunicare in modo diverso, e si mette in discussione ripartendo dal suo fulcro: il concetto di cultura. La rivoluzione di Treccani non sta solo nell’ampliare gli orizzonti di ciò che è ritenuto degno di un approfondimento enciclopedico, sfociando senza remore nella pop culture contemporanea, ma anche nell’adottare un nuovo linguaggio divulgativo, senza paura di addentrarsi negli oscuri meandri della internet culture. Ripartendo dai social network, la Treccani potrà distinguersi, rinverdire la sua identità e creare un nuovo valore aggiunto per i suoi lettori.

La strategia social di Treccani

L’offerta social di Treccani è piuttosto eterogenea: propone tutto ciò che ti aspetteresti da un’enciclopedia normale, ma stupisce con quello che non ti aspetteresti.
Quindi, se da un lato Treccani condivide articoli su storia, geografia e lingua italiana, dall’altro pubblica approfondite analisi di testi di artisti indie e trap nell’apprezzatissima rubrica “Le parole delle canzoni”, legata all’omonima playlist su Spotify, redatta dalla stessa Treccani. In questa profonda commistione fra cultura tradizionale (“alta”) e cultura popolare (“bassa”), Treccani rimane sempre fedele a sé stessa: qualunque argomento viene trattato con la medesima serietà, come si addice ad una vera enciclopedia. E, come si addice ad un vero canale social, l’attenzione all’attualità è fondamentale.

Un esempio? Il 22 gennaio 2020, Treccani spiega etimologia e storia della parola “immunità” ricollegandosi al processo a Matteo Salvini per il caso della nave Gregoretti e al CoronaVirus, argomenti chiacchieratissimi proprio in quei giorni. Per spiegare significato e usi del termine “immunità” si rimanda a un link alla pagina (online) del loro dizionario, ciò che di più istituzionale possa esistere sulla faccia della Terra: eppure, con l’esca dell’attualità, riescono a fartela leggere. Non mancano poi riferimenti alla cultura pop e “nerd”, come testimoniano i post di Treccani su due aggettivi poco comuni, improvvisamente saliti alle cronache nel 2019: “ineluttabile”, pronunciato da Thanos in Avengers: Endgame, e “recalciltrante”, utilizzato nel criticatissimo doppiaggio Netflix di Neon Genesis Evangelion. Fra gli altri contenuti, Treccani propone citazioni e aforismi di personaggi famosi (un classico sempreverde) e omaggi a personaggi illustri di diversi ambiti ed epoche, da Sigmund Freud a Beyoncé. Il copywriting è sempre all’altezza: serio, ma mai serioso; brillante e mai noioso, si lancia spesso in riferimenti esilaranti alla contemporaneità. Fin qui tutto bene, insomma: è una comunicazione che risulta “giovane” senza cercare di imitare i giovani, il che è già un successo. Ma quello che ha destato l’attenzione di tutti non è solo che la Treccani sia riuscita ad intercettare un pubblico giovane e ‘smart’, ma che sia riuscita in un’impresa ancora più ardua: capire cosa sono i meme e, soprattutto, saperli creare e sfruttare per la propria comunicazione.

Ne parleremo nel nostro prossimo blog post, continuate a seguirci!

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