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Creatività

TikTok: come funziona l’app che fa “tremare” Instagram

20 Dicembre 2019

Dato che il successo di TikTok risulta ostico da capire per chiunque abbia superato i 20 anni, cerchiamo di spiegarlo con un’immagine decisamente più familiare e rassicurante: pensiamo alle nostre nonne che, con gli avanzi della cena, preparavano il pranzo per il giorno dopo.
È questa la più veloce ed economica ricetta per il successo: partire da ingredienti già conosciuti, aggiungere un pizzico di novità, ricomporre il tutto in un inedito patchwork e presentarlo in una nuova veste.

È questo il segreto di TikTok, che ingloba in un’unica piattaforma i filtri di Snapchat, le tracce audio di Dubsmash e la comicità fulminea del compianto Vine.
In fondo non è un caso che la genesi di TikTok sia avvenuta proprio attraverso la fusione con un’app già esistente, Musical.ly.

Come funziona TikTok

Se stai leggendo questo articolo probabilmente te lo stai chiedendo, così come se lo sono chiesto i numerosi “vip” nostrani che hanno scaricato l’applicazione, fra cui Fiorello, Barbara D’Urso e Cristiano Malgioglio, ma anche un ben più giovane Fabio Rovazzi. È ciò che probabilmente si sta chiedendo anche Matteo Salvini, primo politico a iscriversi alla piattaforma. Ebbene,ecco come funziona TikTok. Sull’app, gli utenti (i “tiktokers”) condividono video di breve durata (i “tiktok”) seguendo diverse modalità. La funzionalità più conosciuta, che si ricollega al già citato Musical.ly, è quella del playback, in cui il labiale dell’utente viene sincronizzato con file audio di brani musicali o dialoghi tratti da film, programmi tv, video virali e chi più ne ha più ne metta. A decretare il successo di questi video è l’enfasi interpretativa dei “tiktokers” e l’utilizzo di effetti speciali e montaggi mozzafiato. TikTok premia indubbiamente la creatività, ma il concetto di “riciclo” è fondamentale. Non a caso, una delle principali funzionalità dell’app è quella di riutilizzare file audio presenti in altri video allo scopo di farne una parodia, di seguire un “trend”, di prender parte ad una “challenge” o altro. In alternativa, si può pubblicare un contenuto originale che, se avrà successo, verrà a sua volta “riprodotto” dagli altri utenti. In fondo, la riproduzione è alla base della cultura del web: i meme diventano tali perché riproposti in salse diverse. E non è certo un caso che il protagonista di uno dei primissimi video virali, fra il 2004 e il 2005, fosse un adolescente sovrappeso che ballava e mimava in playback il testo di Dragostea Din Tei degli O-Zone (rinominata “Numa Numa Song”): un “tiktoker” ante litteram, oggetto di innumerevoli parodie su YouTube.

Ma su TikTok non ci sono solo video in playback.
La musica rimane una componente importante di molti video, ma non è sempre fondamentale.
Ben più importante è sfruttare al meglio i pochi secondi che si hanno a disposizione per attirare l’attenzione, lanciare un messaggio o far sorridere con un colpo di scena all’ultimo momento, non a caso il motto di TikTok è “Make every second count”. Sempre nell’ottica del riciclo, sono molti i “tiktok” che fanno il verso a Vine o addirittura vanno a ripescare freddure vecchie di decenni, illusioni ottiche e giochi di prestigio. E in fondo anche i filtri che deformano il viso non sono forse i pronipoti degli specchi del luna park. Insomma, niente di nuovo sotto al sole: anche i file audio utilizzati riprendono spesso grandi successi del passato o riportano improvvisamente alla luce vecchi brani semi-sconosciuti.

Perché fa “tremare” Instagram

Il successo di TikTok, soprattutto fra i giovanissimi, è tale che persino Instagram teme di essere “rimpiazzato”.
In effetti le stories di Instagram hanno in comune con i “tiktok” la durata, gli effetti e i filtri, ma mancano di alcune delle caratteristiche che rendono TikTok unico: vediamo quali sono.

TikTok, a differenza delle stories, offre più possibilità di editing: ad esempio, è possibile regolare la velocità dei video o effettuare un montaggio d’effetto (come nel recente trend che vede i “tiktokers” cambiare abito all’improvviso sulle note di Absolutely Anything di CG5 feat. Or30).
Oltre a questo, naturalmente, TikTok permette di utilizzare (e riutilizzare) infinite tracce audio per dare vita a un playback perfetto. Ultima, fondamentale, differenza: le stories, oltre a sparire in 24 ore (a meno che non vengano messe “in evidenza”), rimangono abbastanza “ancorate” al bacino d’utenza, relativamente limitato, dei followers, mentre su TikTok i video più popolari appaiono direttamente sulla pagina principale dell’applicazione, nella sezione “Per te”. Questo permette ai “tiktokers” di ottenere più facilmente notorietà e followers. Tutte le caratteristiche qui elencate saranno presenti in Reels, la nuova funzionalità ideata da Instagram per “sfidare” TikTok. Reels debutta proprio in questi giorni in Brasile: si tratta probabilmente di una “prova generale” prima di estendersi al resto del mondo. Con le stories, Instagram era riuscito ad avere la meglio su Snapchat, battendolo sul suo stesso campo. Succederà lo stesso con TikTok?

Nessuno può dirlo con certezza, ma sicuramente ha un che di ironico pensare che TikTok, nata come patchwork di app già esistenti, possa finire per far parte di un patchwork ancora più grande.
Insomma: non c’è niente di nuovo da mangiare, ma di certo il piatto del giorno dopo è sempre più ricco!

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Filed Under: Creatività, Social Media Tagged With: TikTok

Bill Bernbach: una rivoluzione creativa che ha ancora tanto da insegnare

17 Ottobre 2019

Chi sono i Mad Man? Esistono davvero? Questa creatura quasi mitologica – camicia, cravatta a righe e idee geniali – trova la sua personificazione in William “Bill” Bernbach e nella sua rivoluzione creativa che ha scosso, negli anni ’50, il mondo dell’advertising allora tradizionale fondando un modello destinato a non invecchiare mai.
Oltre la famosa serie TV, approdiamo nella realtà di una storia – e di un manifesto intellettuale e creativo – che ancora oggi riecheggia nelle agenzie di comunicazione: pensare fuori dalla scatola per coinvolgere tutti.

William, ma per tutti “Bill”

William “Bill” Bernbach nasce nel 1901 nel Bronx di New York, da una famiglia modestissima ma creativa: il padre, disegnatore di abiti femminili, è stato uno dei suoi grandi ispiratori.
Bernbach lavora sin da giovanissimo, combatte nella Seconda Guerra Mondiale, e approda già nel 1946 nella storica Agenzia Grey Advertising, prima come copywriter e poi come direttore creativo: una scalata che non dura più di un paio di anni. Infatti, Bernbach, nel 1947 lascia la Grey per fondare la sua agenzia, la Doyle Dane Bernbach – DDB -.
E lo fa con una lettera significativa, forse vero incipit di una rivoluzione del pensiero, di cui vi riportiamo un frammento:

“[…] Sono preoccupato che cominci la sclerosi delle arterie creative. Ci sono un sacco di bravissimi tecnici nella pubblicità. E sfortunatamente hanno il gioco facile. Conoscono tutte le regole. Possono dirti che la presenza di persone in un annuncio lo faranno leggere di più. Possono dirti che una frase dovrebbe essere corta così o lunga cosà. Possono dirti che il testo dovrebbe essere diviso in paragrafi per una più facile e invitante lettura. Possono darti fatti, ancora fatti e ancora fatti. Sono gli scienziati della pubblicità. Ma c’è un piccolo problema. La pubblicità è fondamentalmente persuasione e la persuasione non è una scienza ma un’arte […]”

Si parla di “arte” che può salvare la comunicazione dalla concorrenza, dalla tanta consapevolezza accompagnata dalla scarsa capacità di persuasione, malattia di cui soffrivano molti pubblicitari dell’epoca: un’estrema sintesi che ha portato alla nascita di un nuovo capitolo nella storia dell’advertising.

La rivoluzione creativa di Bernbach

Una palestra per la mente, per sconfiggere la pigrizia, una capacità di vedere oltre, la rivalutazione dell’arte dello scrivere e dell’uso consapevole del copywriting. Tutto questo è alla base di una rivoluzione che fa emergere forte e chiara la voce dei copy e degli art: proprio lui li unisce in quell’unicum creativo che oggi conosciamo.
Non solo: Bernbach, e tutta la DDB, hanno scardinato l’allora convenzione del portare sul palmo della mano il cliente e il suo prodotto. Perché non partire “dal piccolo”, “dal secondo”, invece che essere sempre primi, unici e irripetibili? E così nascono le storiche campagne pubblicitarie Volkswagen, con la mitica headline “Think small” (1959), in un rigoroso bianco e nero, accostata all’immagine, piccola, piccolissima, relegata in un angolo, di un Maggiolone.
Lo stesso accadde poi per “We try harder”(1963): “noi ce la mettiamo tutta, proprio perché non siamo dei numeri uno, perché veniamo dal basso”. Si tratta dell’autonoleggio Avis, che ancora oggi usa questo copy.

Sovvertire le convenzioni legate all’advertising, sovvertire gli status symbol di un’America in crescita, per dare reale valore a un messaggio che non deve partire per forza da basi opulente e ultra-positive: perché il vantaggio si vede ancora meglio se non è evidenziato in maniera prepotente.
Basta essere creativi e scappare dalle forzature.

Perché la sua lezione è valida ancora oggi?

Perché la creatività è un bene collettivo, e può fregiarsi di umiltà, di semplicità, di fantasia, attaccando il reale piano della comunicazione. Bernbach ha portato onestà e partecipazione nell’advertising, creando quel “filo di verità” che porta l’interlocutore nel copy, nell’art, per relazionarsi con ciò che si vuole comunicare.
Insomma, la lezione di Bernbach riguarda proprio tutti: copy, art, clienti, target finale. Un insieme di figure sempre coinvolte tra loro dove nessuno è solo un operaio, solo un committente, solo uno spettatore.
Perché l’advertising è arte del comunicare, e la comunicazione è un qualcosa che riguarda tutti noi.

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Immagini, advertising, responsabilità: gli errori imperdonabili delle maison di moda

2 Ottobre 2019

Succede spesso che la comunicazione si intrecci con la moda: un campo affascinante, ché anche nel ramo dell’advertising lascia sempre il segno. Per lo più.
Già: perché che succede quando le grandi maison e i maestri couturier si fanno calcare troppo la mano dalla necessità di idealizzare il loro prodotto, commettendo qualche gaffe decisamente non perdonabile a livello sociale?
Questo è quanto è successo alla Maison Dior la quale, a metà di questo mese ormai giunto al termine, ha sottovalutato le conseguenze di una campagna advertising con protagonista Johnny Depp.

Dior: autoreferenzialità non responsabile

“We are the land. Sauvage”: in un percorso a ritroso su questo spot, girato nel deserto del Nevada, il claim finale ha fatto storcere il naso a molti, negli USA e non solo.
Perché la “terra selvaggia” in questione è la terra dei Nativi americani che, come la storia – ma anche i più recenti oneri della cronaca – ci insegnano, sono stati sterminati e rinchiusi nelle riserve.
Un accostamento quindi di termini decisamente in antitesi. Il tutto, poi, rafforzato da immagini affascinanti ma del tutto posticce: la bellissima Sioux, che in realtà è un’attrice canadese, e il ballerino intento a danzare in variopinti costumi Cherokee, ma sulle note di una chitarra elettrica suonata da Johnny Depp.
Che cosa si evince, da questo spot diffuso su TV e sulla carta stampata? Una mancanza di analisi e di responsabilità da parte della grande Maison Couturière che, pur di dare un contesto d’ispirazione forte – rimarcando la sensazione che il nome e l’aroma di questa eau de parfum devono per forza dare – sbaglia completamente il significante andando ben oltre la stereotipizzazione, ma rimanendo del tutto dentro all’auto-referenzialità.

Non solo Dior: il caso Gucci

Anche per la maison fiorentina Gucci sembrano lontani i tempi sognanti di “Flora”, l’eau de parfum che ammiccava ai richiami di “Pic Nic a Hanging Rock” sulle note dilatate della cover di “Heart of glass” dei Blondie: all’inizio dello scorso 2019, il brand è stato pubblicamente accusato da Spike Lee e altri esponenti del mondo artistico americano di non avere volontariamente un numero adeguato di stilisti neri. Non solo: negli stessi giorni, Gucci ha dovuto ritirare dal commercio USA un maglione che ricordava, a detta di molti, il “blackface”, il costume che, tra la fine dell’800 e gli anni ‘30, veniva usato dai bianchi per ridicolizzare gli schiavi. Solo una coincidenza? Molto probabile.
Ma la questione è un’altra: la maison, attaccata soprattutto su Twitter, ha risposto alle accuse con una dichiarazione di intenti – assumere sicuramente stilisti neri –  e un’azione concreta – far sparire dal commercio il maglione incriminato e porgere le più sentite scuse. Dior, invece, non ha fatto nulla per porre rimedio a questo scandalo al sole: tempestati di mention e commenti indignati da parte di mezzo mondo, la maison non ha ritirato lo spot, non ha fatto uscire nessun position paper, non ha messo in atto nessuna manovra di crisis management. Semplicemente, forse, lascerà che la folla si calmi e che lo spot venga dimenticato.

In Siks ADV, però, ci viene naturale riflettere su questi meccanismi comunicativi, e notare quale sia la grande mancanza di fondo: una totale assenza di crisis management, che oggi non può passare per un semplice comunicato di scuse, ma potrebbe arricchirsi di un qualcosa di unconventional, magari riprendendo proprio la campagna incriminata e, tingendola di ironia, sorridere di sé stessi e di tutti quegli errori che possono costellare il cammino stellato della moda.

Perché ciò che fa un brand è la sua capacità di comunicare, anche “fuori dalla scatola” autocelebrativa o convenzionale: un comunicazione che non si esaurisce solamente nel senso di evocazione che il prodotto, con il suo naming e la sua costruzione di immagini, ci dà. E, forse, per questo, preferiamo chi se la gioca su altri piani, proprio come Chanel fece in questo intramontabile classico dell’ADV firmato da Jean-Paul Goude.

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Cannes Lions 2019: i migliori spot vincitori appartengono al sociale

1 Luglio 2019

Sì, c’è un olimpo dorato a cui tutti i team creativi puntano, che seguono e da cui prendono spunti per quei trend che detteranno legge nelle campagne advertising a venire: i Leoni di Cannes, il Festival Internazionale della Creatività in pubblicità.
Sette intensissimi giorni sulla Croisette della città francese, presso il Palais des Festivals et Congrès.
Un appuntamento che si sussegue dal 1854, che ha visto passarsi il testimone tra ben 30.000 iscritti e oltre 90 paesi in gioco. Il tutto, ovviamente, culmina, come nella migliore delle creazioni, il settimo giorno, con la celebre premiazione delle migliori campagne e dei migliori concept.

Dopo questa breve ma doverosa introduzione, dedicata a chi, in caso, ancora non conoscesse la kermesse, possiamo addentrarci nel clou della questione: i vincitori 2019, ovviamente visti dagli occhi di Siks ADV!

I migliori spot: la nostra top 3 è per il sociale

    • Google Creatability: più che un’ADV, una vera e propria idea permeante che consente di tradurre in tech e intelligenza artificiale le attività più creative – come musica e disegno – per persone con disabilità. Un esempio? Quello illustrato da Chancey Fleet, accessibily advocate in Google, che racconta la possibilità – per chi non vede – di disegnare su schermo attraverso una mappatura del movimento del corpo, oltre alla possibilità di ricevere in tempo reale una descrizione di ciò che si sta disegnando. Una metodologia applicabile anche alla musica, con la stessa modalità, per scegliere campioni di strumenti differenti e comporre il proprio brano.
    • Ikea Pax for this able: pratico, effettivo, semplice. Più che uno spot, una dimostrazione. Venti secondi, un mobile Pax bianco, uno sfondo giallo, e Pavel che testa la nuova soluzione Ikea, la maniglia ideata per portatori di handicap. Insomma, nulla di troppo stupefacente: fino all’arrivo del payoff finale, “this able”, gioco di parole che rende abile chi prima non poteva compiere con facilità un’azione per molti banale. E questo payoff è diventato il nome di una linea di strumenti facilitatori a cui il brand ha dedicato anche un sito web ad hoc.
    • Nike – Dream Crazy: un vibrante susseguirsi di emozioni, in due minuti di girato e in pieno stile Nike. Un susseguirsi serratissimo di fotogrammi dove “dream crazy”, titolo e payoff del video, racconta come lo sport sia accessibile a tutti, rappresentando un mezzo attraverso cui appianare ogni divergenza e ogni differenza che la società sottolinea. La particolarità? La storia che scandisce il montaggio è raccontata dal quarterback Colin Kaepernick, discriminato ed espulso dal campionato di football americano nel 2016 per essersi inginocchiato durante l’inno, denunciando così il razzismo dilagante nello sport più amato degli USA.

E l’Italia?

Tanti premi per il bel paese: l’Italia ha vinto per lo più nelle categorie social o brand experience, e l’agenzia Pubblicis di Milano si è aggiudicata un bell’en plein con ben tre campagne premiate. Uno di questi piccoli grandi capolavori ha catturato la nostra attenzione: si tratta dello spot Leroy Merlin “Lessons for good”, un girato di oltre due minuti ambientato nei retail Leroy Merlin che punta il tutto per tutto su una maratona di solidarietà. Perché il brand di hobbistica e casa francese ha fatto del contenuto free, come i suoi workshop gratuiti, un forte punto di valore. E con questo spot sicuramente il messaggio arriva forte e chiaro!

Tiriamo le somme

Un’edizione, quella del 2019, che ha visto un vero e proprio cambiamento di consapevolezza e di tematiche. Perché i Cannes Lions hanno premiato la tematica sociale, e la consapevolezza da parte dei brand di quanto sia importante analizzare la realtà, le sue problematiche, le sue sfaccettature: perché solo così si può mirare a un miglioramento collettivo. E perché la comunicazione non può più essere solo una vetrina, ma diventa, giorno dopo giorno, una fonte di informazione creativa ed efficace, sempre più.

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“Titol-arte”: l’arte di scrivere un titolo (spiegata da un copy)

10 Giugno 2019

Ceci n’est pas un blog post. O meglio: questo non è un semplice blog post, ma una piccola guida attraverso il mondo dei titoli, croce e delizia di ogni copy che si rispetti (sì, anche di chi sta scrivendo questo articolo). Perché, diciamocelo: può un titolo fare il contenuto? Assolutamente sì!

I titoli sono magici, e hanno tante utilità: a livello di copywriting per il web possono garantire un ottimo click-through, oltre a una fantastica connessione tra la necessità di un utente e la risposta che noi gli forniamo attraverso un contenuto e che, se ben riuscita, viene premiata da mr. G con un salto in alto nella sua serp.
Il titolo, infatti, non è un elemento secondario nei nostri testi, che siano per il web, ma anche per la carta o l’advertising ATL: questa piccola stringa di testo rappresenta un’arma di creatività affilatissima, in grado di incuriosire, far ricordare, far amare, dare risposte.

Spingi, persuadi, informa con sincerità

Leve di persuasione, àncore, riferimenti. Oltre a una grammatica e a una punteggiatura perfetta c’è molto, molto di più: un titolo ti accompagna all’interno di un tema, soddisfa richieste ancora prima di addentrarsi nel contenuto che viene dopo o, per lo meno, accresce le aspettative in chi legge. Aspettative che non vanno certamente deluse! In questo post non ti daremo, infatti, “i 5 migliori consigli per scrivere un titolo efficace”, ma ti regaliamo un’idea concreta: “titol-arte”, ovvero, “l’arte di scrivere un titolo, spiegata da un copy”.

Ricorda sempre che con un titolo puoi:

  • Esprimere un beneficio unico, purché sia vero. Prendi, per esempio, gli sconti: rappresentano un beneficio reale, un momento adorato dai consumatori, nonché un’occasione unica per far fruttare la tua creatività.
  • Dare una rassicurazione o una soluzione reale al problema del lettore: il titolo ha un potere reale dato da una semplice combinazione di parole!
  • Stimolare, ispirare, provocare, accendere la fantasia per farsi ricordare: il titolo è sempre un’ottima strategia per ogni brand che si rispetti. Un punto, questo, che può collimare con la definizione di “payoff”.

Titoli SEO che piacciono alla Serp

Parliamo chiaro, parliamo preciso. Parliamo, insomma, SEO. Qual è la formula perfetta per un titolo da dare in pasto all’insaziabile appetito dei motori di ricerca? I titoli che piacciono alla SEO si dicono “friendly” e hanno, all’incirca questa struttura:  coincisi, descrittivi, senza ripetere la keyword per cui vorresti posizionarti. Opta per una descrizione accurata, precisa, sintetica.
Ancora le keyword: quando scegli le parole chiave per il tuo titolo ricordati della buona e vecchia “coda-lunga” ovvero non concentrarti sempre e solo sulle parole più competitive, ma esplora l’ambito di pertinenza alla ricerca di quei termini alla ricerca di sinonimi validi e naturali.

Figure retoriche? Sì, grazie (ma con parsimonia)

Iperboli, metafore, anacoluti. No, non parliamo dello studio dell’epica, ma di una tecnica retorica piuttosto antica, fondamentale per dare un tocco di leggerezza ai titoli, attraverso alcune figure che vengono usate in abbondanza, dagli albori del giornalismo.
Perché usare le figure retoriche nello scrivere titoli? Perché il loro impiego devia il regolare andamento del discorso, dando maggiore espressività e aiutando la concentrazione su quelli che sono i “touch point” in maniera più immediata e leggera.
Ma attenzione a non utilizzare i cosiddetti “plastismi”, ovvero gli arcinoti “leader del settore giovani e dinamici“: nella titolazione è decisamente sconsigliato usare quelle espressioni che sono ormai antesignane di una comunicazione datata e che non aggiunge molto. Esprimi al meglio ciò che devi comunicare, con fantasia. Sii coraggioso, non essere uno dei tanti: dopotutto, si parla di te, del tuo lavoro, dei tuoi clienti.

Insomma, provare-provare-provare, e ancora provare: perché il miglior titolo si conquista solamente attraverso l’esperienza e la crescita di consapevolezza degli strumenti tecnici a nostra disposizione, come onestà, fantasia, vocabolario e un pizzico di coraggio. E se quell’idea geniale, semplice e diretta al punto proprio non ti viene… beh, puoi sempre rivolgerti ai nostri copy!

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Living Coral: il nuovo Pantone 2019 è pronto a sorprenderci

30 Gennaio 2019

A volte passa un po’ in sordina, ma per i grafici e i designer si tratta di un appuntamento fisso quanto atteso: il nuovo colore Pantone è tra noi! Contraddistinto dal numero 16-1546, e ribattezzato “Living Coral”, è già stato protagonista indiscusso anche del Time, che gli ha dedicato questo video.

Living Coral: l’allegria salverà il mondo

Living Coral è una tonalità corallo brillante: anche se – a primo acchito – può sembrare un semplice rosa, ecco che il brand Pantone vira descrivendolo come “un arancio vivido e animato, con sfumature dorate.” Un’altra contrastante sorpresa, quindi, da parte del brand istituzione del colore, che sorprende di nuovo, con le sue cartelle, passando dal “fu” Ultra Violet – una tonalità viola intenso – a un tono delicato e dal sentore primaverile. Non sentite anche voi questo profumo di fiori?

Ne vogliamo sapere di più? Sì!

“Il nostro team mondiale di esperti di colore combina i trend e la ricerca sulle influenze di un dato colore“, ha dichiarato Laurie Pressman, presidente del Pantone Color Institute. “L’ispirazione proviene dall’industria dell’intrattenimento, dei film in produzione, dalle raccolte d’arte itineranti e dai nuovi artisti, passando  per la moda e le aree del design, le destinazioni di viaggio popolari, così come i nuovi stili di vita, i giochi e le condizioni socio-economiche, passando anche dalle nuove tecnologie, dai materiali, fino alle piattaforme di social media rilevanti e persino eventi sportivi imminenti che catturano l’attenzione mondiale”.

Ed ecco perché Pantone definisce Living Coral come “un colore dalla spensierata felicità”: il brand, infatti, nel comunicato stampa di lancio, sostiene che la nuance “simboleggi il nostro innato bisogno di ottimismo” – un po’ come a voler influenzare il mood della quotidianità mondiale che, effettivamente, ha molto bisogno di positività. Sì, perché “il colore migliora e influenza il modo in cui viviamo la vita“, come sostiene la Pressman. “[…]e lo fa attraverso  un duplice ruolo, energizzante e vivido. Pantone 16-1546 Living Coral rafforza il modo in cui i colori possono incarnare la nostra esperienza collettiva, riflettendo ciò che sta avvenendo nella nostra cultura globale“.

Living coral: chi ne ha già fatto un must?

Per festeggiare la nuova nuance, Pantone ha collaborato con Tribute Portfolio, un nuovo marchio di hotel indipendenti della catena Marriott, creando un’installazione – che negli USA definiscono come pop-up -: la “Pantone Pantry Tribute Portfolio” presso l’Art Basel Miami.
L’installazione, inaugurata lo scorso 6 dicembre, ripropone una “tradizionale esperienza alberghiera”, presentando superfici e proposte di marketing esperienziale tutte tonalizzate sul nuovo Living Coral, attraverso una copia del banco di accoglienza e di una camera d’albergo. Dopo la conclusione di Art Basel Miami, l’installazione viaggerà a Savannah, in Georgia, e a Rotterdam nei Paesi Bassi (e qui, in fatto di Hotel, sanno come sbizzarrirsi).

Pantone ha inoltre collaborato con Material ConneXion, consulente per l’innovazione dei materiali globali, nonché con Adobe Stock, per far arrivare il Living Coral sulle scrivanie e sui laptop di creativi e designer, curando un insieme di materiali coordinati destinato all’uso creativo per i clienti di Adobe Stock.
Un’altra occasione per dire bye-bye al grigiore aziendale, attraverso una tinta vivace e primaverile, positiva e piena di buone vibrazioni, in grado di influenzare il nostro modo di sentire. Come applicare, dunque, Living Coral alla tua immagine coordinata? Proviamoci insieme! Scrivici qui 🙂

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