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Social Media

TikTok: come funziona l’app che fa “tremare” Instagram

20 Dicembre 2019

Dato che il successo di TikTok risulta ostico da capire per chiunque abbia superato i 20 anni, cerchiamo di spiegarlo con un’immagine decisamente più familiare e rassicurante: pensiamo alle nostre nonne che, con gli avanzi della cena, preparavano il pranzo per il giorno dopo.
È questa la più veloce ed economica ricetta per il successo: partire da ingredienti già conosciuti, aggiungere un pizzico di novità, ricomporre il tutto in un inedito patchwork e presentarlo in una nuova veste.

È questo il segreto di TikTok, che ingloba in un’unica piattaforma i filtri di Snapchat, le tracce audio di Dubsmash e la comicità fulminea del compianto Vine.
In fondo non è un caso che la genesi di TikTok sia avvenuta proprio attraverso la fusione con un’app già esistente, Musical.ly.

Come funziona TikTok

Se stai leggendo questo articolo probabilmente te lo stai chiedendo, così come se lo sono chiesto i numerosi “vip” nostrani che hanno scaricato l’applicazione, fra cui Fiorello, Barbara D’Urso e Cristiano Malgioglio, ma anche un ben più giovane Fabio Rovazzi. È ciò che probabilmente si sta chiedendo anche Matteo Salvini, primo politico a iscriversi alla piattaforma. Ebbene,ecco come funziona TikTok. Sull’app, gli utenti (i “tiktokers”) condividono video di breve durata (i “tiktok”) seguendo diverse modalità. La funzionalità più conosciuta, che si ricollega al già citato Musical.ly, è quella del playback, in cui il labiale dell’utente viene sincronizzato con file audio di brani musicali o dialoghi tratti da film, programmi tv, video virali e chi più ne ha più ne metta. A decretare il successo di questi video è l’enfasi interpretativa dei “tiktokers” e l’utilizzo di effetti speciali e montaggi mozzafiato. TikTok premia indubbiamente la creatività, ma il concetto di “riciclo” è fondamentale. Non a caso, una delle principali funzionalità dell’app è quella di riutilizzare file audio presenti in altri video allo scopo di farne una parodia, di seguire un “trend”, di prender parte ad una “challenge” o altro. In alternativa, si può pubblicare un contenuto originale che, se avrà successo, verrà a sua volta “riprodotto” dagli altri utenti. In fondo, la riproduzione è alla base della cultura del web: i meme diventano tali perché riproposti in salse diverse. E non è certo un caso che il protagonista di uno dei primissimi video virali, fra il 2004 e il 2005, fosse un adolescente sovrappeso che ballava e mimava in playback il testo di Dragostea Din Tei degli O-Zone (rinominata “Numa Numa Song”): un “tiktoker” ante litteram, oggetto di innumerevoli parodie su YouTube.

Ma su TikTok non ci sono solo video in playback.
La musica rimane una componente importante di molti video, ma non è sempre fondamentale.
Ben più importante è sfruttare al meglio i pochi secondi che si hanno a disposizione per attirare l’attenzione, lanciare un messaggio o far sorridere con un colpo di scena all’ultimo momento, non a caso il motto di TikTok è “Make every second count”. Sempre nell’ottica del riciclo, sono molti i “tiktok” che fanno il verso a Vine o addirittura vanno a ripescare freddure vecchie di decenni, illusioni ottiche e giochi di prestigio. E in fondo anche i filtri che deformano il viso non sono forse i pronipoti degli specchi del luna park. Insomma, niente di nuovo sotto al sole: anche i file audio utilizzati riprendono spesso grandi successi del passato o riportano improvvisamente alla luce vecchi brani semi-sconosciuti.

Perché fa “tremare” Instagram

Il successo di TikTok, soprattutto fra i giovanissimi, è tale che persino Instagram teme di essere “rimpiazzato”.
In effetti le stories di Instagram hanno in comune con i “tiktok” la durata, gli effetti e i filtri, ma mancano di alcune delle caratteristiche che rendono TikTok unico: vediamo quali sono.

TikTok, a differenza delle stories, offre più possibilità di editing: ad esempio, è possibile regolare la velocità dei video o effettuare un montaggio d’effetto (come nel recente trend che vede i “tiktokers” cambiare abito all’improvviso sulle note di Absolutely Anything di CG5 feat. Or30).
Oltre a questo, naturalmente, TikTok permette di utilizzare (e riutilizzare) infinite tracce audio per dare vita a un playback perfetto. Ultima, fondamentale, differenza: le stories, oltre a sparire in 24 ore (a meno che non vengano messe “in evidenza”), rimangono abbastanza “ancorate” al bacino d’utenza, relativamente limitato, dei followers, mentre su TikTok i video più popolari appaiono direttamente sulla pagina principale dell’applicazione, nella sezione “Per te”. Questo permette ai “tiktokers” di ottenere più facilmente notorietà e followers. Tutte le caratteristiche qui elencate saranno presenti in Reels, la nuova funzionalità ideata da Instagram per “sfidare” TikTok. Reels debutta proprio in questi giorni in Brasile: si tratta probabilmente di una “prova generale” prima di estendersi al resto del mondo. Con le stories, Instagram era riuscito ad avere la meglio su Snapchat, battendolo sul suo stesso campo. Succederà lo stesso con TikTok?

Nessuno può dirlo con certezza, ma sicuramente ha un che di ironico pensare che TikTok, nata come patchwork di app già esistenti, possa finire per far parte di un patchwork ancora più grande.
Insomma: non c’è niente di nuovo da mangiare, ma di certo il piatto del giorno dopo è sempre più ricco!

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Filed Under: Creatività, Social Media Tagged With: TikTok

Facebook e il cattivo rapporto degli algoritmi con il nudo artistico

11 Settembre 2019

Facebook strikes again. Sì, lo ha rifatto.
Prima c’è stato Rubens, e ora – al centro delle polemiche – troviamo un’opera di Natalia Goncharova: insomma, sembra proprio che il rapporto tra il social del pollicione blu e i nudi d’arte non sia idilliaco. Già, perché, a poco più di un anno dal caso di censura di un nudo del pittore archetipo del barocco – a cui è seguita una campagna di denuncia davvero spettacolare, di cui abbiamo parlato in questo post – ci risiamo: pochi giorni fa, infatti, Facebook ha censurato la campagna advertising che Palazzo Strozzi, a Firenze, ha attivato per promuovere la mostra dell’artista russa.

Quando Facebook censura i nudi artistici

Il problema, storicamente reiterato, sembrerebbe, per il social di Menlo Park, l’incapacità di monitorare umanamente i contenuti, andando oltre quindi gli algoritmi e le sequenze, per valutare quando un contenuto sia realmente “offensivo”, o quando si tratta, invece, di pura arte.
Il tutto nonostante le dichiarazioni, dello scorso settembre 2018, in cui sembrava che Facebook aprisse uno spiraglio di dialogo e fosse disposto a modificare l’algoritmo che tanto penalizza il nudo artistico, dopo un incontro avvenuto proprio nella Casa-Museo Rubenshuis di Anversa.

Il caso della Donna Vitruviana e dell’associazione Luca Coscioni

E così, anche l’associazione che si batte per la legalità dell’eutanasia e della scelta di fine vita ha avuto problemi con Facebook, vedendosi censurata la sua “Donna Vitruviana”, simbolo del convegno tenutosi a Milano lo scorso ottobre 2018 e simboleggiante – in pieno stile cartoon – una donna e la moltitudine di compiti che le spettano sotto forma del celebre disegno di Leonardo. La risposta di Avy Candeli, direttore creativo dell’Associazione, non si è fatta attendere:

“L’intelligenza artificiale potrà ottimizzare la vita umana, ma è incredibile come possa complicare in “autonomia” la creatività umana. Pur citando esplicitamente un’opera di Leonardo da Vinci con un uomo nudo, conoscendo le linee guida di Facebook ci eravamo posti il problema di non rappresentare la nostra donna ‘libera’ altrettanto nuda, e avevamo deciso di ‘censurarla’ coprendole ogni elemento ‘anche’ sessuale, sentendoci già censori”.

Facebook e la censura: ma come funziona?

Chi avrebbe mai pensato, all’interno del team di comunicazione, come quello dell’Associazione o, più recentemente, di Palazzo Strozzi, che un’immagine di un nudo astratto avrebbe sollevato le pudicizie del social, e proprio in una campagna a pagamento Eppure, ad aprile 2018, Facebook ha pubblicato una dettagliatissima lista di norme e linee guida sulla censura, i cosiddetti “community standards”, passati abbastanza inosservati. In particolare, il punto che ci interessa è proprio quello dei “contenuti deplorevoli”, in cui vengono raggruppati:

  • incitazioni all’odio razziale;
  • contenuti visivi violenti;
  • nudo e pornografia;
  • contenuti che esprimono insensibilità.

E, proprio nei contenuti di nudo sono incluse anche le opere d’arte che possiedono un eccessivo (ovviamente a seconda del gusto e della moralità del social blu) realismo figurativo, siano sculture antiche o immagini artistiche contemporanee.

Beh, c’è poco da dire, quando si parla di algoritmi: se Facebook non distingue tra arte e pornografia, erano questi i termini con cui è stata condotta la battaglia contro il social da parte dell’Ente del Turismo delle Fiandre, la colpa è proprio loro. E, con ogni probabilità, inserire un capitale più umano nel mondo numerico dell’algoritmo potrebbe evitare a Zuckerberg e alla sua società queste piccole cadute di stile nei confronti del patrimonio artistico mondiale.

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Filed Under: Facebook, Social Media

Instagram: metamorfosi estetica? Ecco cosa sta succedendo

9 Maggio 2019

Instagram, da reale trend-setter popolato dagli ormai ultra-noti influencer, muta aspetto in tempi vertiginosi, velocissimi: non tanto per il layout, come fa il cugino Facebook, ma proprio a livello di aspetto, di mood delle immagini che lo popolano.
Un cambiamento di estetica guidato dalla Generazione Z dove i millennials, con le loro immagini di caffè e pc, non si trovano più così a loro agio. La metamorfosi sta, ovviamente, prendendo piede soprattutto negli USA, come testimonia il magazine The Atlantic, ma viene da chiedersi se questa contagerà presto anche il vecchio continente.

Gli utenti crescono (o meglio, cambiano) e l’estetica si plasma:

La piattaforma Instagram è cresciuta così tanto negli ultimi 2 anni da arrivare a contare quasi 1 miliardo di utenti mensili. Ed è proprio questa massa che sta apportando un reale cambio di estetica: i protagonisti sono ora pareti luminose, lattine disposte ad arte, toast all’avocado, l’aspetto curato, patinato e lucido, le luci fredde e correzione cromatica fai-da-te. Niente più calore, niente più filtri Lo-Fi. E le foto che impersonificano queste tendenze riscuotono un tale successo che il mood è ormai sinonimo della piattaforma stessa; anzi, sta dilagando all’esterno.
Proprio The Atlantic ci invita a “farci caso”: anche se non utilizzi l’app, hai sicuramente incontrato, in un ristorante, in un bar, un bagno dai colori vivaci che sembra fatto apposta per essere fotografato.

Sempre The Atlantic interpella, poi, James Nord, Amministratore Delegato di Fohr, una piattaforma di consulenza e gestione specializzata in influencer marketing, il quale afferma di vedere ogni giorno questo cambiamento direttamente nei numeri – in termini di follower – dei suoi clienti: “Ciò che ha funzionato prima, ora non funziona più“, dice. “Per la prima volta, gli influencer si scontrano realmente con il problema di poter continuare a crescere mentre i gusti degli utenti Instagram cambiano repentinamente. Un anno fa, un influencer poteva pubblicare uno scatto con mani ben curate su una tazza di caffè e fare man bassa di mi piace, ma ora non più.”

Sempre secondo Fohr, il 60 percento degli influencer con più di 100.000 follower in realtà sta perdendo centinaia seguaci, mese dopo mese. “È piuttosto impressionante“, dice Nord “Essere un influencer che, nel 2019, fa ancora coloratissimi scatti in piedi di fronte agli ‘Instagram wall’ è difficile.”

Musei e big fun art a portata di scatto

Facciamo un passo indietro: “Instagram wall”? Sì; anzi, oltre ai muri di più: perché esistono veri e propri “musei” creati apposta per gli scatti social. Almeno Oltreoceano. E si tratta di reali manifestazioni di quell’epoca che il critico di Artnet New Ben Davis ha chiamato “Big Fun Art”. Infatti, i social come Instagram hanno portato a un modo più popolare di consumare cultura: ovvero, attraverso questi musei-contenitori di installazioni coinvolgenti, fatte di gomma, marshmallows, biglie, così divertenti e foto-friendly, dove basta pagare un ticket di ingresso – dai 30 dollari ai quasi 200 di un vip pass – per i propri scatti da esporre sul social a caccia di nuovi likes.
Ma, anche qui, qualcosa sta cambiando: pare che queste location multicolor non siano poi più così appetibili perché non più in sintonia con la nuova estetica in arrivo da Instagram, fatta di luci fredde e di pose molto meno plastiche.

La dura vita dell’Influencer

Certo, la piattaforma stessa potrebbe essere parzialmente responsabile di come si sono evolute le cose: ma sono i gusti di chi popola Instagram a dettare legge, la loro età, e il loro senso estetico, trasmettendo queste necessità anche agli influencer stessi, i quali, in più casi, hanno denunciato  casi di burnout e di stress causato dal dover a tutti i costi mantenere la perfezione. Un motivo in più per abbandonare il proprio stile, cedendo a quelle che sono le richieste degli utenti, pena la perdita del titolo di trend-setter.

Che cosa succederà in Italia nei prossimi mesi? Lo scopriremo, e vedremo se questa tendenza spopolerà anche nel nostro paese. Nel mentre, curare al meglio la propria presenza sui social, prestando massima attenzione ai trend, applicandoli alla propria strategia sembra essere la soluzione migliore.
Come? Non hai una strategia? Bene, allora qui possiamo aiutarti noi!

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Un orizzonte umano: Lush, Facebook, Snapchat parlano alle persone

16 Aprile 2019

Le nostre antenne sono sempre ben sintonizzate sul mondo dei social media: infatti, questi potentissimi canali sono in grado di darci il polso della situazione non solo del mondo marketing e digital, ma anche di come le persone – che sono il nostro target privilegiato per comunicare – recepiscano e vivano questi spazi.
E proprio le “persone” sono al centro delle ultime novità del mondo social media: tra un brand che lascia il tavolo di gioco a carte scoperte, Facebook che implementa una funzione strettamente “umana”, e Snapchat che si avvicina ulteriormente alla sua fetta di pubblico. Il tutto, in tre news dal mondo digital che in questo freddo aprile hanno saputo scaldare il cuore di tanti marketers. Tra un bug e l’altro.

Lush (UK) lascia i social

Mail, telefono, chat sul sito web e, ovviamente, punti vendita e flag stores: questi sono gli unici mezzi attraverso cui clienti e (ormai ex) follower potranno raggiungere Lush nel Regno Unito. Il famoso brand beauty 100% vegano ha infatti annunciato – con un tweet – l’uscita di scena dai social UK. Una decisione che sembra voler far riflettere su due punti: algoritmi invadenti, e necessità di stringere un contatto diretto, un approccio “human to human”, ma anche una riflessione sul non voler più pagare per la visibilità confluita dalle campagne ADS.
Un ritorno alle origini? Beh, di certo si tratta di una mossa che non riguarda la totalità dei paesi in cui il brand è presente, e che si restringe solo a un player della strategia social del brand. In Italia, infatti, i canali Lush sono ancora attivi!

Facebook lancia la funzione per commemorare i defunti

Se per qualche brand l’orizzonte social si è fatto scuro, ecco che per uno strano gioco di tempistiche, proprio mente Lush saluta i media per dedicarsi al contatto umano, Facebook lancia un’estensione che consentirà alle persone di unirsi e celebrare il ricordo di qualcuno amato, con la funzione di commemorazione dei defunti: si tratta di una modalità attraverso cui creare una community che dia spazio a ricordi, aneddoti e messaggi per ricordare chi è venuto a mancare, dalla funzionalità semplice e immediata. Infatti, un amico, un parente, o un erede della persona scomparsa potrà divenire amministratore del profilo, trasformandolo così in pagina di commemorazione: un admin, a tutti gli effetti, che potrà anche fare affidamento su standard di controllo – da parte della piattaforma – molto alti, per far sì che il ricordo rimanga puro e non venga strumentalizzato in alcun modo.

Snapchat si potenzia, per il piacere del suo pubblico

Notizia di soli 4 giorni fa: Snapchat sviluppa nuovi filtri e una sezione “show” che sembra voler percorrere un binario parallelo a quello di Facebook Watch.
Snapchat è un sistema di chat nato solo nel 2011 a opera di due studenti di Stanford, ed è certamente uno degli strumenti più utilizzati nella quotidianità tra i teenagers.
Non solo: Snapchat sta divenendo, in sordina, un social a tutti gli effetti. Infatti, nel 2013, Snapchat suscitò l’interesse di Zuckenberg che offrì ben 3 miliardi di dollari per l’acquisto della piattaforma. Oggi, a quasi 5 anni dal rifiuto di quell’offerta così cospicua, ecco che Snapchat si concentra sul lancio di serie – veri e propri show pomeridiani, tra cui uno realizzato da BuzzFeed – e di una piattaforma gaming con cui giocare in tempo reale con i propri amici durante una semplice chat, fino alla piattaforma per sviluppatori. Ma questa, forse, è una storia che merita un approfondimento a parte!

E così, tra down sempre più frequenti dei colossi, come quelli di Instagram, Facebook, Whatsapp – un malfunzionamento di concerto che risale al 15 aprile e che segue di appena 30 giorni il down più lungo della storia, durato ben 14 ore – all’orizzonte non ci sono solo abbandoni, neanche troppo a malincuore, come quello di Lush, ma anche alternative e strumenti che ci permettono di allargare la nostra visione social, ampliandola e rendendola differente, come con Snapchat, per una strategia che tenga conto non solo della vera socialità, quella che si basa su rapporti tra esseri umani, ma anche di scorciatoie e di nuove risorse che – chissà – un giorno potranno costituire una risorsa con cui andare controcorrente.

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Lo storytelling sociale e l’esempio di GLAAD

19 Marzo 2019

Lo storytelling ha un impatto altissimo non solo nella comunicazione più diffusa, comune e quotidiana, tra landing page, siti web e advertising su carta stampata: da diverso tempo, infatti, questa ormai disciplina per eccellenza del mondo comunicativo sta raggiungendo risultati insperati anche tra le istituzioni e nel sociale. Sì, proprio quel “sociale” che finisce con “e”. Perché lo storytelling non nasce con il web, ma è un patrimonio che l’uomo porta con sé dall’alba dei tempi. E oggi, nel nostro blog, vorremmo raccontarvi la storia dello storytelling sociale e di GLAAD. Partiamo!

Un momento: ma cosa fa lo storytelling sociale?

Di storytelling sociale ne parla ampiamente la Rockfeller Foundation, – fondazione americana filantropica che si occupa del raggiungimento dei diritti umani fondamentali – in particolare attraverso la figura del digital director Jay Geneske: dal favorire la connessione emotiva tra chi parla e chi ascolta, usando un linguaggio proprio ma riconoscibile, “sdoganando” anche terminologie ancora poco note, o neologismi, per riflettere su temi caldi, poco dibattuti o ostici.
Solo così, infatti, possono così superare processi complessi di comprensione e di accettazione.

Il caso GLAAD

Ai più, questo nome non dirà nulla. Ma GLAAD è l’acronimo di Gay & Lesbian Alliance Against Defamation (ovvero: “Alleanza gay e lesbica contro la diffamazione”), ed è un’associazione che dal lontano 1990 monitora cinema, televisione, advertising e tutto ciò che ha a che vedere con i media non solo americani, ma internazionali, combattendo ogni tipo di rappresentazione distorta delle persone GLBT. E, da una decina di anni a questa parte, GLAAD è un movimento estremamente attivo anche nel web, non solo attraverso questo continuo monitoraggio del sentiment e delle issue relative al tema dei diritti gay, ma fornendo anche una chiave di lettura fatta di storie quotidiane che raccontano attività, battaglie  e principi saldi su cui si muovono. Perché “GLAAD” – come si legge sul loro sito web – “riscrive lo script per l’accettazione LGBT e, come dinamica forza mediatica, GLAAD affronta questioni difficili per modellare la narrativa e provocare un dialogo che porta al cambiamento culturale.” Insomma, dialogo, script, forza mediatica. Storie vere, raccontate dalla prima persona, collaborazione e creazione condivisa con utenti e pubblico, raccontando storie a “un passo da noi” di grande normalità, eppure spesso incomprese.

Questo è il messaggio-storytelling di GLAAD, diffuso attraverso diverse properties, come un sito web che offre contenuti, opportunità di connessione e opportunità di attivazione, come riporta proprio l’articolo su digital e social storytelling della Rockfeller Institution, e una moltitudine di strumenti, tra cui il blog, aggiornato quotidianamente, per trasmettere messaggi chiari, identificabili, comprensibili che, in questo caso, non hanno un pubblico definito, ma che cercano di arrivare alla collettività nella sua interezza, per individuare, poi, obiettivi sotto-specifici.
Il tutto servendosi non solo degli strumenti web – la loro pagina Facebook è un continuo aggiornamento e raggiungimento di risultati importanti a livello comunicativo e, quindi, umano – ma anche di eventi, come i Glaad Media Awards, che si terranno proprio il 28 marzo prossimo.

Il linguaggio di GLAAD che ci racconta una storia

Glaad, da ormai oltre 30 anni, porta avanti l’importante azione di “shaping the media“, sensibilizzando il mondo “against defamation”, e lo fa raccontandosi, soprattutto attraverso un vocabolario specifico fatto di Media Institute, Engagement, Entertainment Media e, per l’appunto, Stories: le storie di chi vive la propria omosessualità in zone difficili, come nel sud degli USA, e le storie di ciascuno, condivisibili attraverso la piattaforma “Share your story”.

Immedesimarsi, raccontare, analizzare: grazie allo storytelling è davvero facile. E così, può diventare ancora più semplice abbattere i muri di pregiudizi e le barriere dell’intelligibilità semplicemente raccontando una storia semplice, dando voce e immagine a una parte di società non sempre così visibile.

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Vlog: l’altra faccia di YouTube

13 Febbraio 2019

Dimmi come blogghi, e ti dirò chi sei: infatti, c’è blog e… vlog. O videoblog. O vidblog.
Quando alle parole non basta più una sola forma d’espressione, ecco che queste si uniscono al video per creare rubriche e storie, racconti, informazioni e – ovviamente – tutorial.
Un sistema di comunicazione, quello del Vlog, davvero popolare tra i giovanissimi, che il più delle volte coincide con il termine YouTuber e che rappresenta una corsa verso l’oro, in realtà, a basso costo, dal momento che per diventare vlogger bastano davvero pochi strumenti: uno smartphone, un account YouTube e buone idee (oltre a un programma di editing video per dare quel tocco giocoso e movimentato che caratterizza i contenuti di questa piattaforma).

Vlogger o YouTuber? Analisi di una definizione

Possiamo definire i Vlogger come una sorta di blogger che, anziché aggiornare – appunto – un blog, scelgono di condividere i loro contenuti sul canale YouTube. Già, perché YouTube è decisamente in grado di veicolare popolarità non solo fra gli utenti, ma anche tra le aziende, ghiotti e potenziali sponsor e ambassador: decisamente un valido motivo per cui preferire questo canale anziché altri.
Non solo: nella definizione del fenomeno vlogger possiamo poi utilizzare una discriminante “estera”: il termine YouTuber descrive per lo più i vlogger italiani, con un’utenza super-young e contenuti giocosi, non troppo raffinati, mentre il termine vlog ha un respiro più internazionale. E, per rendere ancora più nebulosa la situazione, alcuni famosi YouTubers – soprattutto all’estero –  gestiscono canali separati. Perché la domanda sorge spontanea: quanto guadagna un Vlogger, specie se possiede più properties? Ce lo svela il quotidiano “La Stampa” , secondo cui i vlog più remunerativi sono quelli canadesi e statunitensi, dove l’introito medio totale è tra i 5 e gli 8 milioni di dollari totali: una cifra da capogiro! Ma anche in Italia non si scherza.

I Vlogger più famosi al mondo

Si parla di – realmente – non solo di milioni di dollari, ma anche di milioni di followers: in Italia i vlogger più famosi sono gli ormai storici Favij, Clio MakeUp – approdata ufficialmente alla TV -, fino ai “newly born” Sofia Viscardi, Greta Menchi e IPantellas, idoli dei giovanissimi, con un introito medio tra i 25 e 150 mila euro mensili! Le tematiche? Fumetti, makeup, gaming e comicità. Ne abbiamo parlato anche in questo nostro articolo dedicato, più strettamente, agli YouTubers. Ma cosa succede sull’isola (più) felice dei paesi anglosassoni? Bene, le star dei canali YouTube sono certamente due: iniziamo da Roman AtwoodVlogs, con un vlog che parla, molto semplicemente, della sua vita, ma  in maniera epica. Roman ha iniziato il suo percorso producendo video comici, attirando così ben 10 milioni di utenti e raggiungendo l’ambito reward del 50° canale più sottoscritto su YouTube: Roman, infatti, può essere orgoglioso di essere il secondo YouTuber ad aver ricevuto ben due Diamond Play Button e ad aver vinto la categoria YouTube Comedian degli Shorty Awards nel 2016. Successivamente, troviamo Daniel Howell, iniziando come “Danisnotonfire”, vlog poi ribattezzato – semplicemente – Daniel Howell, oltre a un canale laterale, vero e proprio side project, chiamato “Danisnotinteresting”, dove il blogger carica video bonus che completano i contenuti del canale principale.

Un vero e proprio mondo da scoprire, quindi, quello dei vlog, fatto di contenuti giovani e giovanissimi, autentico del Belpaese, tra strategie video remunerative e con un’esperienza di oltre 10 anni per l’estero, per una popolarità che va ben oltre i famosi 15 minuti di Andy Wahrol.

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